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Premessa
In questo articolo utilizzerò il termine formazione per indicare le attività che hanno come obiettivo la crescita di conoscenze, competenze, capacità delle persone, soprattutto nell’ambito delle soft skill e il termine facilitazione per indicare le attività che hanno come obiettivo aiutare i gruppi a trovare soluzioni condivise, a condividere le proprie conoscenze, competenze. Il docente diventa: formatore quando ha dei contenuti da trasferire, facilitatore quando presidia il processo della comunicazione, della condivisione.
La facilitazione, in quanto strumento che permette ai gruppi di far emergere le proprie conoscenze, sia quelle dichiarate, che quelle implicite e più nascoste, può essere di valido aiuto nei percorsi di formazione.
Utilizzando le metodologie facilitative in un percorso formativo si possono raggiungere gli obiettivi didattici in maniera più coinvolgente e valorizzando al massimo il contributo delle persone in aula. Questo permette ai partecipanti di sentirsi protagonisti del percorso e non solamente spettatori passivi. Per cercare di comprendere meglio cosa sia possibile fare, e come, scomporrò schematicamente il percorso formativo in tre momenti ed indicherò per ognuno il possibile utilizzo delle tecniche facilitative:
Per ognuno di questi punti farò un esempio, ovviamente non esaustivo, di cosa sia possibile fare.
All’inizio del percorso
Il momento iniziale di un corso è sempre un momento “delicato”.
All’inizio del percorso le persone non sempre si conoscono e, anche quando si conoscono, ognuno tende ad assumere un comportamento coerente con le attese che il gruppo ha nei suoi confronti.
Il momento formativo è momento di riflessione rispetto ai comportamenti di ruolo e, a volte (penso ai corsi sul cambiamento, sulla comunicazione interpersonale, sulla gestione del gruppo, ecc.) anche sui comportamenti della persona tout court; riflessione che può portare a dei significativi insight del partecipante rispetto ad alcune sue dinamiche.
Kant esemplifica il nostro orientarci nel pensiero, facendo questo esempio: “Nell’oscurità sono in grado di orientarmi in una stanza a me nota toccando un unico oggetto di cui ricordo la posizione. Ma è chiaro che in questo caso mi giovo esclusivamente della facoltà di determinare le posizioni in base ad un criterio di distinzione soggettivo, dal momento che non vedo affatto gli oggetti di cui devo determinare la posizione” (1) . Riprendendo la metafora kantiana, una significativa riflessione può portare anche a spostare quei mobili e, conseguentemente, a doversi ri-orientare all’interno del proprio schema di pensiero.
In questo contesto, quale il vantaggio nell’utilizzo di una tecnica facilitativa?
Permette ai partecipanti di potersi esprimere senza doversi mettere in gioco personalmente; aiuta a “scoprire le carte”, favorendo l’espressione del vissuto e delle percezioni individuali e di gruppo; permette un confronto non pericoloso.
Un esempio di cosa si potrebbe fare. Dividere il gruppo d’aula in piccoli sotto gruppi; chiedere ad ogni sottogruppo di scrivere le parole chiave relative al tema su dei post-it grandi e posizionarle sulla lavagna a fogli mobili. Si possono utilizzare dei post-it con colori differenti per ogni gruppo di lavoro.
Tornati in plenaria i sottogruppi presenteranno il proprio lavoro. Dopo la presentazione il docente/facilitatore raggrupperà le parole utilizzate nei post-it in aree omogenee. Il cluster si realizzerà attraverso una fase di parroting, in cui il docente/facilitatore si assicurerà che tutti i partecipanti siano d’accordo sul significato delle parole presenti sulla lavagna a fogli mobili. In questa fase non è necessario cercare un accordo sui contenuti emersi, ma solamente fare in modo che tutti abbiano esattamente compreso cosa gli altri gruppi intendevano utilizzando quelle parole. Condiviso il significato si chiede di raggruppare queste in aree omogenee e di dargli un titolo.
I cluster emersi evidenziano le conoscenze e le aree di approfondimento che il gruppo riconosce come proprie. Si può utilizzare questo lavoro introduttivo come base per tarare il corso sulle esigenze specifiche dei partecipanti presenti, pur mantenendo intatta la struttura e l’organizzazione dello stesso.
Durante il percorso formativo
Inserire momenti facilitati all’interno del percorso formativo “spezza” la fatica della formazione.
La facilitazione si presta molto ad essere “gamificata”, soprattutto se utilizziamo metodi di facilitazione visuale.
Durante il percorso formativo si possono prevedere dei momenti, o un momento, in cui si fa il “punto nave” insieme ai partecipanti, per vedere dove si è arrivati e cosa c’è bisogno di riprendere per chiarificare ed approfondire ulteriormente. Normalmente c’è, nella giornata d’aula, uno o più momenti in cui ci si ferma e si pongono le domande: è tutto chiaro? C’è qualche argomento che dobbiamo riprendere? Ci sono domande in sospeso?
Se c’è qualche partecipante che ha dei dubbi solitamente prende la parola e li esprime (sto dando per scontato che il docente abbia creato un clima d’aula tale per cui le persone si sentano libere di intervenire). Può darsi che qualcun altro, un poco più timido, tenda a tenere per se le proprie perplessità e a non esprimerle o ad esprimerle alla fine del corso stesso, quando il tempo non ci permette di essere esaustivi come vorremmo.
Come ovviare e “gamificare” questo momento? Si prepara un cartellone sul quale si disegna una figura con la quale intendiamo rappresentare il ruolo ricoperto dalle persone in aula. Si predispongono dei fogli sui quali si chiede di indicare di posizionare gli ostacoli che si incontrano nello svolgimento del lavoro e gli strumenti che mettono in condizione di superare questi ostacoli nel migliore dei modi. Quando si realizza il lavoro sugli strumenti, si chiede di evidenziare se e come questi si siano modificati a seguito dell’attività di formazione.
Alla fine del lavoro avremo un tabellone che, appeso su una parete dell’aula, rimarrà come visualizzazione di quanto esperito fino a quel momento e potrà essere utilmente implementato durante la successiva attività formativa, mantenendo traccia del lavoro mano a mano che si avanza nel percorso.
Alla fine del percorso formativo
Chiudendo il percorso si ha bisogno di riassumere i contenuti trattati durante il corso; gestire il distacco emotivo dei partecipanti, soprattutto se si è creato un buon clima di gruppo, che ha coinvolto non solo a livello cognitivo ma anche a livello emotivo le persone. È anche opportuno avere un clima finale di leggerezza e gioco, per evitare di avere un effetto alone negativo determinato da chiusure troppo brusche.
Una possibile tecnica facilitativa utilizzabile. Realizzare un grande cartellone da appendere ad una parete con sopra disegnata una strada che rappresenti metaforicamente quanto il gruppo ha realizzato dall’inizio del percorso a questo momento. Si può chiedere ai partecipanti, in sotto gruppi o tutti insieme, di aggiungere gli elementi emersi durante il corso. Si chiederà di lavorare metaforicamente. È possibile scrivere, disegnare, attaccare delle foto; bisogna lasciare la massima libertà di espressione. Il focus sarà sicuramente sui contenuti del corso, ma bisogna lasciare spazio anche all’espressione di quanto emerso nelle relazioni fra i partecipanti. Qualcuno potrebbe disegnare all’inizio della strada delle persone che viaggiano da sole e alla fine tutte con la stessa maglietta come un gruppo o una squadra. Qualcun altro potrebbe disegnare lungo la strada dei sassi, o dei muri, che possono rappresentare le difficoltà incontrate. Qualcuno potrebbe mettere dei cartelli, con sopra le parole significative di quanto avvenuto durante il percorso. Alla fine della strada potrebbero scrivere i concetti più “forti”, creando una valigetta virtuale che ognuno si possa portare al suo rientro nel luogo di lavoro.
Lasciamo il gruppo libero e fidiamoci della sua capacità creativa. È opportuno fare una fotografia dei partecipanti con il cartellone alle loro spalle e poi spedirla a tutti.
Alcune ultime considerazioni
Le facilitazioni proposte in questo articolo hanno un valore puramente esemplificativo.
La base principale per realizzare una buona facilitazione è una corretta progettazione. Ancora maggiore attenzione si deve porre quando inseriamo una tecnica facilitativa all’interno di un percorso di formazione, per evitare che il passaggio da una all’altra venga vissuto come confuso. Bisogna avere molto chiari i motivi che spingono ad utilizzare questo tipo di metodologia, che richiede una attenzione differente rispetto al momento formativo.
Quando si utilizza la facilitazione il “docente” è, in realtà, un consulente di processo rispetto alla modalità che il gruppo utilizza nel confrontarsi per arrivare al risultato richiesto. L’approfondimento formativo diventa un momento conseguente al lavoro svolto dai partecipanti.
Nel momento in cui si realizzano i cartelloni, che bisogna preparare prima e portare in aula già pronti, è buona norma fare delle fotografie, sia del cartellone che del gruppo al lavoro e del gruppo davanti al cartellone finito. Alla fine del percorso queste fotografie verranno spedite ai partecipanti. Questo rafforza quanto già detto sull’aspetto progettuale, sia a livello cognitivo che di realizzazione dei materiali. È un bel ricordo del momento formativo e di rinforzo di quanto appreso.
Quali le possibili controindicazioni all’utilizzo di queste metodologie?
La controindicazione maggiore è il tempo. Le metodologie facilitative richiedono tempo per essere utilizzate e, in periodi in cui si tende a diminuire il tempo dedicato alla formazione chiedendo corsi sempre più compressi, può sembrare controproducente inserire esercitazioni che costringono ad ampliare lo spazio dedicato alla formazione. Per ridurre al minimo il tempo è necessaria una corretta progettazione, come già più volte sottolineato.
L’utilizzo di queste metodologie permette di rendere ludico il momento apprenditivo, e sappiamo che quando l’apprendimento avviene giocando, agganciando un’emozione positiva a quanto si sta sperimentando, rimane maggiormente impresso.
I vantaggi che si ottengono sono sicuramente maggiori delle difficoltà che si possono incontrare.
Le tecniche facilitative rendono le persone protagoniste, non sono più solamente discenti a cui viene spiegato qualcosa, ma partecipano attivamente alla costruzione di un sapere condiviso. Il docente è, nell’ottica dell’andragogia così come magistralmente spiegato da Malcom Knowles , un primus inter pares al servizio del gruppo, che porta la sua competenza della materia per aiutare il gruppo stesso ad implementare la propria conoscenza e, soprattutto, per aiutare le persone ad utilizzare quei comportamenti che le aiuteranno a lavorare e, possibilmente, a vivere meglio.
(1) Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi Editore - pag. 48, 49
Immagina di trovarti nel bel mezzo di una conferenza, il relatore sta parlando e tu sei seduto sulla tua sedia ad ascoltare. Il tuo ascolto, lentamente, si riduce e ti distrai facilmente. Adesso, ti rendi conto di seguire solo a scatti le parole del relatore, hai perso il filo e ti accorgi che, alle persone intorno a te, sta accadendo la stessa cosa. Qualcuno, infatti, tossisce, si agita sulla sedia, e sono trascorsi soltanto i primi cinquanta minuti.
Ora prova ad immaginare che, a questo punto della conferenza, dalla platea, si alzino due clown vestiti di nero, con naso rosso e cappello e comincino una improvvisazione. La tua postura è cambiata, sei curioso, attento, e ti sembra di riconoscere, in ciò che dicono e agiscono, alcune parole chiave usate dal relatore, ad esempio. Sei sorpreso da quanto sta accadendo, ma presto si fa chiaro: i clown stanno facendo una restituzione di quello che si è appena ascoltato, ma dal loro punto di vista. I due clown si muovono nella sala, creano immagini, danno voce a quello che sta dietro le parole, lasciano emergere le emozioni che non sono state nominate, insomma, rendono visibile l'invisibile. Quale potrebbe essere l'umore della platea adesso?
Finito l'intervento, che dura massimo 10 minuti, i due clown tornano a sedersi fra il pubblico, ricominciano a prendere appunti, ascoltano profondamente al fine di individuare nuove immagini possibili, aspettando il momento giusto per un nuovo intervento. Il relatore riprende a parlare, tutto sembra essere tornato alla normalità, eppure niente è più come prima. Quell'intervento ha, infatti, trasformato lo spazio, risvegliato l'attenzione, modificato la qualità dell'ascolto, fissato i concetti fondamentali attraverso l'uso di metafore. Ora, le parole e i concetti possono trovare nuovi e sorprendenti significati attraverso la poesia, la metafora, la comicità che acquisiscono senso anche quando vengono utilizzati i linguaggi più tecnici.
Naso Naso Social Clown è un'associazione nata nel 2012 che, dopo un lungo percorso di formazione sul clown 'sotto la direzione di V.Gladwell, R.McNeer e P.MacDonald, si è specializzata nella tecnica del Social Clown, sperimentata per la prima volta dal gruppo francese Bataclown, nei primi anni ottanta, diffusa poi in Inghilterra negli anni novanta grazie al lavoro di Vivian Gladwell, con la sua scuola "Nose to Nose". Il gruppo Naso Naso porta per la prima volta in Italia questa metodologia ormai diffusa in diversi paesi d'Europa.
Gli operatori e le operatrici di Naso Naso Social Clown lavorano su tutto il territorio nazionale, nei più variegati contesti: lezioni universitarie, convegni, corsi di formazione professionali, conferenze, presentazioni di libri, facilitando la comunicazione in qualunque situazione che preveda una persona che parla ed un pubblico che ascolta.
Ma basta leggere, guardiamo!
Premessa alla lettura (o coscienza editoriale): parlando di facilitazione grafica mi sento intellettualmente obbligata ad esprimermi, anche attraverso le immagini, quindi auguro una buona lettura e una buona visione.
Gli elementi della facilitazione grafica
“Ti faccio un disegnino?”
Quante volte ci è capitato di sentire questa frase o, con una punta di arrogante ironia, pronunciarla noi stessi per prendersi bonariamente gioco di qualcuno che non sta capendo del tutto un discorso?
Quante volte ci siamo divertiti giocando a Pictionary, sforzandoci di andare oltre le parole per entrare nel linguaggio dell’immagine e della metafora?
Quante volte ci siamo soffermati sui disegni delle favole, incantanti come se le parole vibrassero dalle linee e dai colori?
Il linguaggio per immagini, da tempi ben più antichi (si pensi al linguaggio mitologico), facilita la rappresentazione di un’idea e l’apprendimento di un concetto. Il potere simbolico dell’immagine consente di esprimersi attraverso un linguaggio universale, non semplicemente perché in grado di rivolgersi a “tutti”, ma anche e soprattutto perché capace di fissare in un’unica rappresentazione molteplici emozioni, percezioni, e opinioni. L’immagine, inoltre, è legittimata a spingersi oltre i limiti della razionalità, e ha un potere creativo attraverso il quale genera nuove connessioni e metafore ricche di significato: in quanto manifestazione del pensiero, si muove su più dimensioni e attraversa gli spazi del possibile.
Per praticare la facilitazione grafica non serve nessun dono geniale calato dal cielo, sicuramente alcune capacità e doti innate possono aiutare, ma non è la bellezza del tratto il cuore del lavoro di facilitazione, quanto porsi nella giusta posizione di ascolto per poter ricevere e rappresentare ciò che emerge, e divertirsi con parole, immagini e colori, per stimolare la creatività e “uscire dagli schemi” pur restando ancorati allo schema/tema della conversazione.
Ben lontana dal voler proporre una teoria della facilitazione grafica, ritengo tuttavia interessante identificare le fasi principali in cui, secondo la mia opinione, si sviluppa, e gli elementi che la contraddistinguono.
Apertura (di chi realizza la facilitazione grafica)
Il passaggio attraverso la soggettività di chi scrive e disegna comporta una percentuale inevitabile di interpretazione personale, legata a molteplici fattori tra i quali ciò che si riceve di quello che viene detto, le parole che si sceglie di usare per descriverlo, o l’immagine con cui si decide di rappresentarlo (in caso contrario si tratterebbe di graphic recording). Questo necessario attraversamento richiede dunque di porsi in una condizione di apertura e sospensione del giudizio, tale da poter diventare, di fatto, un contenitore ricettivo e attivo al tempo stesso.
Ascolto
La condizione appena descritta conduce direttamente alla capacità di ascolto profondo sia dell’esplicito, ciò che viene detto, sia dell’implicito, il clima che si viene a creare. Una buona capacità di ascolto “aperto” permette una più ampia espressione della creatività garantendo un prodotto unico perché influenzato dall’ambiente nel suo complesso. È plausibile pensare, ad esempio, che una conversazione allegra e leggera possa condurre alla scelta di utilizzare colori chiari e associati a sentimenti positivi, viceversa, un clima più pesante o addirittura teso, può portare a scegliere colori dalle tonalità più scure.
Sintesi
Porsi in uno stato di apertura e ascolto, per quanto bello e arricchente, richiede necessariamente la capacità di sintetizzare quanto emerge dalla conversazione. Una sintesi chiara e fedele ha bisogno dunque di una scopa a portata di mano con cui prontamente spazzare via tutte quelle informazioni “border line” che invece di portare valore alla rappresentazione, rischiano di disorientare e condurre fuori tema. È importante tenere bene a mente che se viene meno la coerenza e l’organicità, la facilitazione grafica più che facilitare rischia di confondere e non lasciare nulla se non un pallido “che carino, che bello”.
Interpretazione e rappresentazione
Nodo dolente della facilitazione grafica, l’interpretazione e la rappresentazione richiedono un “uscire fuori da sé, pur rimanendo se stessi”, obbligano ad utilizzare un linguaggio universale e simbolico che, attraverso un’interpretazione e una sintesi soggettive, riesca a trovare una sorta di accordo con cui collegare le differenti percezioni, opinioni, interpretazioni del medesimo concetto. Quando si realizza una facilitazione grafica, infatti, bisogna sempre ricordarsi che si sta creando qualcosa che resterà nel tempo, un’eredità collettiva che deve poter essere comprensibile da tutti.
Connessioni
La capacità di creare legami tra idee, sia rappresentando le connessioni dichiarate, sia esplicitando quelle non verbalizzate, garantisce omogeneità, coerenza, chiarezza, senza però ridurre e perdere la rappresentazione della complessità della questione affrontata. Le connessioni consentono inoltre una lettura circolare e dinamica, che cattura l’attenzione dell’osservatore, e sono necessarie alla narrazione stessa perché creando legami tra concetti producono una vera e propria storia che, attraverso la facilitazione grafica, viene catturata e raccontata.
Immagini e simboli
L’abilità grafica è percepita come il principale ostacolo ad ogni forma di visualizzazione e facilitazione grafica, quando non è del tutto vero. È chiaro che un bel tratto risulti piacevole alla vista, ma non sono da sottovalutare la chiarezza di un tratto liscio e pulito, una calligrafia curata e precisa, o un efficace uso dei colori. Al di là di doti artistiche innate, sono tutte abilità che si possono facilmente esercitare proprio come da bambini!
Pensare l’assurdo
In virtù del suo potere simbolico e creativo l’immagine può generare, di fatto, ciò che più compiace il disegnatore. Nella facilitazione grafica osare un po’ può aiutare a catturare al meglio alcune idee o concetti più sfuggenti, come ad esempio le emozioni. Quel pizzico di follia, inoltre, è il tratto distintivo, l’autografo, di chi realizza la facilitazione grafica, è, in un certo senso, parte del compromesso che fa con la sua soggettività, prezzo da pagare per esercitare la capacità di interpretazione e rappresentazione.
Post it
Mai uscire senza, multitasking sì, ma prendere qualche appunto aiuta!
Per tener fede a quella coscienza editoriale già citata, ho deciso di realizzare la facilitazione grafica di quanto ho scritto nell’articolo:
Esperienze di facilitazione grafica in contesto destrutturato
La Philosophy’s Cool® - e, in particolare, gli Aperitivi filosofici in giardino 2017 - di Spazi dell’Anima, hanno rappresentato un’occasione unica per sperimentare la facilitazione grafica. La modalità d’incontro proposta, di tipo dialogico e conviviale, è finalizzata a esplorare, in modo libero da schemi precostituiti e dalle convenzioni del dibattito, una questione rilevante per la nostra vita.
Tali contesti di apprendimento, che potremmo definire destrutturati (o strutturati al minimo), non solo vengono arricchiti dalla facilitazione grafica, ma, in un certo senso, la necessitano. La narrazione istantanea di quanto sta accadendo in primo luogo permette di seguire il flusso della discussione, anche da parte di chi non partecipa attivamente alla conversazione, in secondo luogo conferisce omogeneità e senso, diventando testimonianza vivente di quanto è accaduto durante l’incontro, lasciando qualcosa in più a chi ha partecipato (banalmente, quasi tutti hanno voluto fotografare le rappresentazioni).
La libertà dialogica che caratterizza questo tipo di eventi, inoltre, facilita la facilitazione stessa perché permette un’espressione creativa libera e aperta.
trad. di Giulia Boschi
“Se avessi solo un’ora per risolvere un problema dalla cui soluzione dipendesse la mia vita, passerei i primi 55 minuti a stabilire che domanda porre, perché, una volta individuata la domanda giusta, risolverei il problema in meno di cinque minuti” (Albert Einstein)
Quando è stata l’ultima volta in cui, partecipando a un incontro, vi siete detti: “Questa è una totale perdita di tempo”? Ieri, o solo qualche ora fa? Perché l’incontro vi è parso così noioso? Forse la ragione sta nel fatto che gli intervenuti, all’inizio della sessione, hanno posto le domande sbagliate, o peggio ancora, non hanno posto alcuna domanda interessante e di conseguenza l’incontro si è risolto in un susseguirsi di tediosi rapporti - o di altre forme di comunicazioni a senso unico - che non sono riusciti a catturare né l’interesse né la curiosità dei partecipanti.
La qualità delle domande determina infatti sia l’apprendimento di cose utili che l’avvio di azioni efficaci. Le domande schiudono la porta al dialogo e alla scoperta, sono un invito alla creatività e al pensiero innovativo; possono stimolare interventi su questioni chiave e, generando percezioni creative, dare il via al cambiamento.
Perché non ci poniamo buone domande?
Se è fondamentale porsi una buona domanda, perché la maggior parte di noi non spende più tempo ed energie a scoprirla e a formularla? Forse una della ragioni risiede nel fatto che la cultura occidentale, e nordamericana in particolare, si concentra soprattutto nell’ottenere la “risposta giusta” invece di scoprire la “domanda giusta”.
Il nostro sistema educativo si concentra più sull’apprendimento mnemonico che sull’arte di cercare nuove vie. Di rado ci viene chiesto di scoprire domande stuzzicanti, così come non ci viene insegnato il motivo per cui sarebbe importante porsele. Quiz, esami vari e test attitudinali contribuiscono a rafforzare il valore della risposta esatta. C’è quindi da stupirsi se quasi tutti ci sentiamo a disagio quando non sappiamo qualcosa?
Il fatto che la nostra cultura sia contraria a porre domande creative è legato sia all’importanza data a trovare soluzioni rapide che a una spiccata preferenza per un modo di pensare in termini alternativi, quali bianco/nero - o/o. Inoltre il ritmo sempre più accelerato della nostra vita e del nostro lavoro non ci dà spesso l’occasione di partecipare a scambi di riflessione in cui, prima di arrivare a una decisione, vengano esaminate domande stimolanti e nuove potenzialità. Questi fattori, uniti all’idea oggi prevalente che il “vero lavoro” consiste soprattutto in analisi dettagliate, decisioni immediate e azioni rapide, contraddicono il modo di vedere secondo cui un “lavoro intelligente”, per essere efficace, si articola sul porsi domande di spessore e intrattenere scambi ad ampio raggio su questioni sostanziali.
I sistemi meritori in uso nelle nostre organizzazioni non fanno che rafforzare tale visuale. I dirigenti ritengono infatti di essere pagati per risolvere i problemi e non per stimolare il pensiero creativo. Tra il nostro smodato attaccamento a la risposta – qualunque essa sia – e la nostra ansia di non sapere a sufficienza, abbiamo senza volerlo soffocato la nostra capacità collettiva di stimolare creatività e aprire nuove strade. Invece abbiamo più che mai bisogno di queste capacità, viste le sfide senza precedenti che siamo chiamati ad affrontare sia nelle nostre organizzazioni che come comunità globale. […]
Dato che stiamo entrando in un’era in cui spesso si riscontrano questioni sistemiche alla base di sfide epocali, sfide che si possono risolvere solo se esaminate da diverse prospettive e in cui i rapporti causa/effetto non sono immediatamente apparenti, la chiave destinata a creare un futuro positivo sta nella capacità di porre domande penetranti che consentano di mettere in discussione le assunzioni su cui operiamo oggi. Come ha affermato Einstein: “I problemi attuali non possono essere risolti al livello di pensiero che li ha creati”. E nel suo libro The Art of the Question (L’arte della domanda) Marilee Goldberg precisa: “Uno spostamento di paradigma si verifica solo se, all’interno del paradigma esistente, si pone una domanda cui si può rispondere unicamente dall’esterno di esso”. Spostamento di paradigma, fondato su domande costruttive, che si può rivelare necessario per creare situazioni davvero innovative ai problemi che più ci stanno a cuore.
Cosa rende costruttiva una domanda?
In una descrizione altamente evocativa, Fran Peavey, un pioniere nell’uso di domande strategiche, osserva: “Le domande sono come una leva usata per aprire il coperchio di un barattolo di vernice… Se la leva è corta si riesce appena a socchiudere il coperchio, ma, con una leva più lunga, o una domanda più stimolante, possiamo aprirlo completamente e smuovere qualcosa…. Ponendo la domanda giusta che riesce a scavare nel profondo siamo in grado di smuovere tutte le soluzioni creative”.
Anche se non si conoscono tutte le caratteristiche di una domanda creativa, è abbastanza facile riconoscerla. Ad esempio, se foste un giudice di gara alle Olimpiadi a cui viene richiesto di valutare le seguenti domande con un punteggio da uno a dieci (dieci essendo il massimo), che punto gli assegnereste?
Abbiamo posto queste domande in vari contesti culturali e abbiamo così scoperto che, malgrado le differenze di formazione, le persone di solito ritengono meno costruttive le domande uno e due. Chiaramente le domande costruttive trascendono molti limiti. […]
Pertanto una domanda costruttiva
fa sorgere curiosità nell’ascoltatore
Una domanda costruttiva ha anche la capacità di “circolare bene” , di oltrepassare cioè l’ambito in cui è nata per immettersi in una rete più vasta di scambi all’interno di un’organizzazione o di una comunità. Tali domande sono spesso la chiave di vasti cambiamenti. Come diremo più oltre, il modo di porre tali domande incide enormemente sulla loro capacità di far progredire il sistema.
L’architettura delle domande costruttive
Come abbiamo affermato all’inizio, le domande costruttive riescono a migliorare in modo stupefacente la qualità di intuizioni, innovazioni e azioni sia nelle organizzazioni e comunità, che nella vita corrente. Pertanto, nell’economia cognitiva attuale, capire l’architettura basilare che consente di formulare domande costruttive è un talento fondamentale. Le domande costruttive constano di tre dimensioni: costruzione, ambito e assunti, e ognuna di esse contribuisce a determinare la qualità delle conoscenze che vengono prodotte ogni volte che ci impegniamo in una ricerca insieme ad altre persone.
PRIMA DIMENSIONE: la costruzione di una domanda
La costruzione linguistica di una domanda può avere risultati contrapposti: aprire o restringere la nostra mente. Chiediamoci: è una domanda del genere sì/no? Oppure da o/o? Comincia con una particella interrogativa quale: chi, cosa,come?
CHI COSA
QUANDO DOVE CHE
PERCHÉ COME?
Tanto per divertirvi cercate di mettere queste parole in ordine crescente, dalle meno alle più importanti. Non riflettete troppo, lasciatevi guidare dall’intuizione. Di solito il risultato è il seguente:
Più importanti
PERCHÉ
COME
COSA
CHI, QUANDO, DOVE
CHE, DOMANDE SI/NO
Meno importanti
Se usiamo le parole che figurano in cima alla lista possiamo rendere le nostre domande più incisive. Consideriamo ad esempio la sequenza sottostante:
Passando dalla domanda più semplice, la “sì/no”, iniziale a quella finale impostata sul “perché” si nota che gli interrogativi diventano sempre più stimolanti, producendo maggiore riflessione e un livello più profondo di scambio. È quello che intendiamo con l’espressione “domanda” costruttiva, ossia quella domanda che invita a pensare prima di rispondere.
Attenzione tuttavia. Se una domanda del genere “perché” non è formulata adeguatamente può facilmente mettere l’interlocutore sulla difensiva, perché le persone tendono a giustificare le loro risposte piuttosto che ad approfondire la questione. Ad esempio domande quali “perché non mi dici mai esattamente quello che pensi?” o “perché ti sei comportato così?”, possono spingere la persona a difendere la propria posizione invece che a pensare a soluzioni alternative. Se però un “perché” nasce da una sana curiosità, come quando uno si esprime dicendo “mi chiedo perché sia successa la tal cosa”, allora la domanda è capace di creare riflessioni stimolanti.
Il fatto che una domanda si trovi all’apice della lista non significa automaticamente che sia più rilevante delle altre situate al fondo. Secondo gli scopi che ci prefiggiamo, una domanda “sì/no” può essere di somma importanza (specialmente se siete sul punto di concludere una vendita importante!). Così pure una domanda che riguarda fatti connessi al chi, quando, dove può spesso essere cruciale: pensate alle questioni legali. Tuttavia se volete dar spazio alla creatività e al pensiero innovativo, le domande costruite sui termini che figurano in cima alla lista saranno sempre le più efficaci.
LA SECONDA DIMENSIONE: l’ambito di una domanda
Oltre a tener conto di come le parole che scegliamo influenzino l’efficacia della ricerca, bisogna anche che l’ambito della domanda corrisponda a quanto stiamo cercando di ottenere. Esaminiamo le tre domande seguenti:
Nell’esempio succitato le domande vanno man mano ampliando il campo della ricerca, in quanto prendono in considerazioni aspetti sempre più vasti del sistema. In una parola ampliano il proprio ambito. Nel cercare di rendere costruttive le vostre domande, precisate al massimo l’ambito in cui intendete muovervi, cosi da mantenervi nella sfera della situazione che state affrontando.
LA TERZA DIMENSIONE: gli assunti impliciti nelle domande
La natura stessa del linguaggio fa sì che in quasi tutte le domande si celino assunti, impliciti o espliciti, che il gruppo dei partecipanti può o non può condividere […]
Per formulare domande costruttive è importante rendersi conto degli assunti soggiacenti e usarli in modo adeguato. Mettiamo a confronto le due domande seguenti: “Dove abbiamo sbagliato e di chi è la responsabilità?” / “Cosa possiamo imparare da quanto è accaduto e che possibilità intravediamo?” La prima domanda mette in risalto l’errore e la colpa: si può facilmente presumere che chi risponderà starà sulla difensiva. La seconda invece incoraggia la riflessione e molto probabilmente riuscirà a stimolare collaborazione e approfondimento tra le persone coinvolte.
È spesso utile verificare se una domanda contenga inconsciamente dei preconcetti. Per fare ciò basta chiedere ai vostri collaboratori durante una riunione: “Quali assunti o preconcetti abbiamo in mente suscettibili di influire sullo scambio in corso?” come pure “Come potremmo arrivare a questo punto partendo da uno schema mentale completamente differente?” Ambedue le domande incitano a esplorare i nostri assunti consci e inconsci, aprendo al contempo la strada a nuove prospettive.[…]
Capire e considerare attentamente le tre dimensioni di una domanda costruttiva ci permette di renderla ancora più efficace, aumentando la nostra capacità di stimolare intuizioni in grado di plasmare il futuro. Come per ogni nuovo talento, il miglior maestro in questo campo è l’esperienza e il miglior allenatore è un ascoltatore attento. Provate a rendere più costruttive le vostre domande e vedete che impatto avranno.
Ad esempio, prima di un incontro importante, passate qualche minuto a elencare con un collega le domande rilevanti al soggetto in discussione, scrivendole poi per ordine di importanza. Tenendo presente le tre dimensioni sopra descritte, cercate di capire perché alcune domande sono più stringenti. Provate poi a cambiarne la costruzione e l’ambito per percepire come viene così a mutare la direzione della ricerca. Assicuratevi di esaminare gli assunti impliciti, cercando di capire se saranno o meno di ostacolo al vostro scopo. Basteranno pochi esercizi per migliorare la vostra capacità di avviare conversazioni produttive favorite da domande stimolanti.
Social Dreaming è il nome che Gordon Lawrence ha dato a un lavoro di costruzione creativa operato a partire dai sogni portati in un gruppo in cui il sogno è considerato come materiale offerto (per i suoi soli significati narrativi, per i suoi inneschi associativi, senza nessun collegamento di tipo clinico alla persona del sognatore), senza che se ne ricerchi una interpretazione o significato riconducibili alla storia personale di chi deposita il sogno, e reso invece per tutti materia utile per pensare pensieri nuovi. In sostanza, un antidoto alla sterilità dei dialoghi delle organizzazioni e del sociale nei momenti di stasi conservativa e di asfissia del pensiero (1).
Possiamo dunque vedere il Social Dreaming come un metodo per scoprire il significato e la rilevanza sociale dei sogni al fine di costruire una narrazione partecipata. Perché una Matrice di Sogno Sociale sia possibile occorre che vi sia un gruppo disposto a condividere sogni e ad associare ad essi altri sogni e associazioni. Ogni matrice richiede la presenza di almeno un host, che ne mantenga rigorosamente il mandato: spazio e ascolto. Le persone abituate alle esperienze di Social Dreaming sviluppano un linguaggio e una modalità di analisi e pensiero che è peculiare in chi riesce a guardare le cose attraverso (le associazioni), disvelando il possibile e le impreviste connessioni. E la metafora dell’utero richiamata dalla matrice (luogo madre) mantiene il gruppo (di sognatori) in uno spazio aperto e concavo, capace di ospitare, far crescere, e lasciar andare.
Ogni matrice è seguita e accompagnata da un dialogo sistemico con il passaggio da una modalità associativa a una modalità che diviene esplicitamente narrativa, e utilizzando la quale il singolo sognatore (che abbia o meno portato un contributo verbale nella matrice appena conclusa), può restituire al gruppo i suoi pensieri coscienti, le connessioni che ha ricostruito, le idee generate dal gruppo nel flusso.
Il Social dreaming quindi ha al suo interno una impostazione metodologica eversiva poiché si muove da una competenza di ciascuno e ciascuna, la competenza del produrre narrazione sognando, unita alla capacità di utilizzarla nella rete delle associazioni sia personali che di gruppo. Un gruppo educato alla ricchezza della narrazione a partire dalle associazioni, saprà introdurre così nuove trame, nuove ipotesi imprevedibili sui terreni della progettualità personale, gruppale, organizzativa e sociale; e accederà, infine, a quello che Gordon Lawrence definisce come infinito o non pensato, ovvero il luogo di una costruzione poetica della relazione con il mondo.
L’incontro con Gordon Lawrence è stato per me possibile grazie al prezioso lavoro fatto da lui in Italia, negli anni, con Lilia Baglioni e con Franca Fubini. E con loro tre che come Host ho imparato a condurre una matrice, a compimento delle diverse occasioni di Sogno Sociale che si erano svolte negli anni precedenti. E’ per questo lavoro (e apprendimento in esperienza) che è sempre vivo, nel mio approccio, il desiderio di sviluppare e proporre (a gruppi sempre nuovi e diversi) luoghi e occasioni capaci di facilitare l’emersione di pensieri e linguaggi nuovi. E’ stata, e continua ad essere, una esperienza di straordinaria bellezza e ricchezza.
Il delicato percorso di ricerca svolto dopo nel tempo, attraverso interventi esperienziali e pratiche quotidiane, ha generato, in contesti anche molto diversi, occasioni di abilitazione di gruppi al sogno sociale. E con ciascuna persona incontrata la riflessione sul saper “tenere” vuoto il centro della matrice, difendendolo dall’attacco della ragione schematica o dell’interpretazione personale e del pre-giudizio, è stato un compito di apprendimento e formativo. Ogni pensiero che sia nato in matrice, amplificato e connesso, è stato trasformato in narrazioni, in ipotesi di lavoro comune, in progetti e visioni. Abilitare alla narrazione ha voluto e vuol dire abilitare persone a immaginare e immaginarsi nel presente e futuro, e a riconoscere la propria ed altrui capacità di far vivere occasioni esistenziali nuove.
E’ per tutto questo che sento oggi di voler aggiungere ai pensieri raccolti negli anni, ancor prima e ancor più vivamente, il sapere che occorre pensare al Social Dreaming come strada ulteriore per ospitare dialoghi. Narrazioni, convivenze e parole “non ostili”. Come strumento di democrazia (e abbassamento della soglia del conflitto) attraverso il riconoscimento delle storie portate da tutti, attraverso l’ascolto (dei sogni e bisogni). Strumento che può essere offerto per creare convivenza proficua, legittimo spazio per le storie narrate e narrabili. E’ questo ultimo aspetto che sembra essere, oggi, ancor più rilevante: far nascere e facilitare gruppi nei quali ognuno possa essere parimenti competente, ascoltato, presente. E quindi, parimenti efficace, potente, e felice. Da Gordon e Lilia non poteva venire una migliore eredità.
Or dunque, fra i facilitatori e i facilitati, in tempi così bui per il sociale e per il lavoro, chi ha il primo sogno?
(1) N. Garofalo, "Social Dreaming, a misunderstanding virtuous in the name"- FOR, 2012
1. Partecipazione
Oggi di partecipazione si muore, non nel senso letterale del termine. La partecipazione è diventata un fenomeno molto presente nella nostra vita, invasiva ed energivora, divoratrice delle nostre risorse, in primis del tempo. Quelle che constatiamo tutti i giorni sono le dimensioni abusate e debordanti del concetto. Si dimentica, invece, che la partecipazione è e deve essere trasversale e propedeutica alla co-costruzione della conoscenza; supportare ed influenzare i processi decisionali e l’opinione pubblica (informata); migliorare e fluidificare i processi di comunicazione e notifica di quanto avviene di rilevante per gli individui, i gruppi e la società; creare relazioni e supportare reti sociali (e di aiuto); dar vita a meccanismi di accountability (il “rendere conto”, soprattutto di soggetti pubblici) e di engagement estesi, oltre che di condivisione, dato che l’implementazione delle azioni (e la ricaduta degli effetti) necessita sempre più di una estensione degli attori; concorrere con le risorse, si pensi soltanto alle partecipazioni di natura economico-finanziarie e patrimoniali; migliorare l’apprendimento, le expertise, le social e soft skills; perché no, portare ad una migliore convivenza sociale ed una affermazione dei diritti fondamentali degli individui, attraverso una “allocazione vincolante di valori” (Verba, Nie, 1972). Insomma interessare tutta la catena strategico-operativa delle azioni umane, a vario livello e con vari gradi di libertà, ben sapendo che non possiamo partecipare sempre e comunque a tutto, pena l’immobilismo, l’irrigidimentazione della catena e l’inutilità dei principi alla base del concetto.
La partecipazione è prendere parte e concorrere a qualcosa assieme ad altri. Il problema nasce se il principio deve essere assoluto o situato. Se assoluto allora si pone in termini sempre in contrasto ed in alternativa al sistema, come somma energia anarchica. Se situato, invece, va analizzato e ridefinito in funzione delle culture, dei tempi e delle esigenze, a supporto e miglioramento delle forme di governo o di dominio pubblico. Un solo esempio. Quando una pubblica amministrazione è incaricata di prendere una decisione, decidere una policy o implementare una azione di piano se la partecipazione è del primo tipo allora sarà scontro, scalzamento di autorità, pressione sociale atta ad affermare il principio che l’autorità è sempre pubblica e collettiva, mai coercitiva; se, invece, la partecipazione è del secondo tipo allora sarà cooperazione, supporto ed influenza dell’autorità, che avrà sempre l’ultima parola. Naturalmente è una generalizzazione iperbolica, finalizzata ad evidenziare le due posizioni, in genere denominate radicale e riformista, ma quasi mai presenti in queste forme assolute.
Da queste prime riflessioni si evince che la partecipazione è un concetto, anche un ideale, che aspira ad essere un paradigma (Kuhn, 1969) pervasivo di ogni ambito della vita associata di singoli, gruppi e comunità. In alcuni ambiti, ha già una sua storia di declinazioni operative. Si pensi alla pianificazione e governo del territorio, alle politiche pubbliche, ai vari ambiti di gestione delle risorse naturali ed al legame stretto che c’è tra partecipazione e sviluppo locale o tra essa e la sostenibilità. Ma anche in termini di rapporti con il potere, la potremmo declinare come “governance”, “accountability”, “sussidiarietà”. Spesso confondendo la partecipazione con la democrazia deliberativa, quando l’enfasi è soprattutto spostata su aspetti dialogici.
Altre volte viene sovrapposta a concetti quali apprendimento sociale, organizzativo, empowerment. La partecipazione è, anche, in grado di aumentare lo spazio del dominio pubblico sia in termini di soggetti e di competenze che in termini di conoscenze e risorse, aspetti che la vedono come una occasione importante per la gestione della conoscenza, la risoluzione dei conflitti, la mediazione, etc…
La partecipazione cambia le posizioni dei vari attori e ne allinea gli sforzi creando fiducia, fidelizzazione e forme di collaborazione, fattori indispensabili per la relevance, effectiveness e la sustainability delle azioni pianificate e legate alla vita associata. Oltre, a questi aspetti di breve e medio periodo occorre considerare gli aspetti di lungo periodo, quali l’empowerment (individuale e collettivo) ed il social learning. Il partecipare a processi di produzioni di conoscenze si dimostra essere uno strumento formidabile di apprendimento, rende le comunità competenti, a patto che sia una azione iterata nel tempo ed abbia una qualche circolarità. Ma la partecipazione è necessaria non solo per il problem setting e il problem solving, anche per il team building, il capacity building e per tutte le azioni di networking. Lega in maniera indissolubile problemi, soluzioni (o proposte alternative) a reti di attori, aspetto enfatizzato in tanta letteratura riguardante “Large Group Interaction Methods”, “Consensus Building Approach”, “action-research” ed altre modalità di azione facilitate (Sclavi, 2011).
La partecipazione quando attivata e legittimata si configura come diritto-dovere con marcata auto-determinazione e solidarietà, oltre che enfasi sull’impegno e sulla responsabilità, data la destrutturazione dei rapporti verticali e del meccanismo di delega.
2. Rapporto tra partecipazione e regole
Volendo fare subito una prima scrematura, diremo che la partecipazione può essere auto-diretta o etero-diretta, ossia organizzata al suo interno in moto autonomo o facilitata da altri soggetti, come avviene ad esempio nel caso della progettazione partecipata. In entrambi i casi, tutte le forme di partecipazione che conosciamo (sociale, politica, religiosa, economica, etc…) hanno sempre necessità di ancorarsi ad un set di regole esterno e a determinati setting (spazi che hanno regole proprie). Sono cornici necessarie per garantire la riuscita se non proprio l’esistenza della partecipazione stessa.
Molti autori hanno enfatizzato l’importanza di questi spazi simbolici di interazione comunicativa finalizzata. Bobbio (2002) aveva introdotto il termine di “arene deliberative”, per indicare spazi di discussione e lavoro finalizzati alla risoluzione di problemi comuni attraverso la tecnica del lavoro nel piccolo gruppo, anche con un numero di soggetti molto grandi. Nel piccolo la gestione dei problemi e delle conflittualità è minore. Nei gruppi formati per l’occasione i giochi di forza cambiano ed anche la geometria degli interessi e degli umori.
I gruppi, però, non sono esenti dai problemi generati dalle loro stesse dinamiche (in e out; chiusure cognitive; leadership e membership; conformismo; estremizzazione delle posizioni, etc…), come sottolineava già Kurt Lewin ad inizio del secolo scorso (Garramone, Aicardi, 2010).
Aspetto di notevole interesse è la riproposizione di setting che ricordano oltre alle aree dei gladiatori per le loro dinamiche, le piazze o gli spazi circolari della socialità per gli aspetti relazionali e di contenuto. Tutta l’attenzione della partecipazione e dei suoi metodi mira a ripristinare questi due tipi di spazi, per produrre consenso, intelligenza collettiva, cambiamenti e lenire i livelli di disaccordo. Se le discussioni spontanee delle piazze sono “incontri del primo tipo” e se le assemblee istituzionali, molto diverse per natura dalle precedenti, le definiamo come “incontri di secondo tipo”, allora le arene della partecipazione non possono essere che “incontro del terzo tipo”, diverse dalle precedenti, ma una loro sintesi, alla ricerca spasmodica dell’informalità (degli “incontri del primo tipo”) e dell’esecutività e deliberatività (propria degli “incontri di secondo tipo”). Molto spesso questa sintesi avviene attraverso la fusione di filosofie di condotta (ad esempio l’ascolto attivo) con le tecnologie (e tecniche di lavoro) al fine di far emergere preferenze, elaborare proposte e strutturare strategie condivise, in tempi il più possibile ridotti (Garramone, Aicardi, 2011).
C’è una vasta gamma di setting (e di relative regole) che i metodi della partecipazione hanno generato. Potremmo incunearla tra due modelli estremi, l’Open Space Technology (OST) e il Town Meeting. Essi propongono due approcci diversi attraverso setting diversi per natura e peso. Per natura diremo subito che il primo propende per l’auto-organizzazione e la leadership mobile, il secondo per una ben determinata organizzazione ed una sorta di “headship di natura operativa”, ossia dei membri selezionati per eseguire quanto stabilito nella riunione a livello di città (Garramone, Aicardi, 2011). Per peso, evidenzieremo che mentre l’OST è una sorta di non-conferenza, il Town Meeting è una forma di autogoverno locale. Questo solo per chiarire la questione di come sia sfumata e complessa l’analisi e la tecnologia dei processi decisionali.
3. L’OST, ovvero la partecipazione con poche regole
Per quanto riguarda i setting, possiamo avere cornici leggere e cornici pesanti.
Faremo un breve focus soprattutto sulle cornici leggere, ovvero sui setting che funzionano con un set risicato di regole, attraverso l’OST, un metodo che nasce a metà degli anni ottanta del secolo scorso grazie ad un antropologo e fotogiornalista, poi consulente ed organizzatore di convegni. Osservatore così attento da trasformarsi in sociologo delle organizzazioni, Owen fa una scoperta importante riguardo al momento dei coffee break nei meeting e convegni. È questo il momento più intenso e proficuo degli incontri-eventi, molte volte è il momento in cui emergono e vengono veicolate informazioni importanti ed utili. Su questa scoperta si innesta una invenzione. Owen inventa un metodo che risolve il problema capovolgendo la situazione. I meeting e i convegni saranno dei coffee break dilatati. Solo così avranno maggiore efficienza ed efficacia. Il suo metodo cercherà poi di ricreare l’informalità della situazione del coffee break attraverso un basso grado di formalizzazione del metodo. Userà poche regole (4 principi, 2 metafore e 1 legge) ed un facilitatore a scomparsa, ovvero un facilitatore che sarà attivo solo in fase di start up del processo ed in fase di chiusura, rendendo così possibile la creazione di momenti di auto-organizzazione.
La semplicità del metodo fa la sua fortuna, sia in termini di apprendimento che di gestione.
Nel dettaglio, i 4 principi riguardano la modalità di selezione dei partecipanti (“Chiunque venga è la persona giusta”); l’efficacia o l’orientamento valutativo del processo di partecipazione (“Qualsiasi cosa accada è l’unica che poteva accadere”); e la programmazione dell’agenda (“In qualsiasi momento l’OST cominci, è il momento giusto”; e “Quando è finita è finita”).
La legge, invece, innesca una sorta di captatio benevolentia o di istituzionalizzazione dell’utilità (prosociale) del singolo (“se ti accorgi che non stai né imparando né contribuendo alle attività, alzati e spostati in un luogo in cui puoi essere più produttivo”).
La legge legittima anche l’autogestione ed evita l’etichettamento di comportamenti devianti o socialmente sanzionati, supportata dalle metafore, che potremmo definire una sorta di catalogazione della pluralità di comportamenti che possono essere messi in campo: il “bombo”, per indicare persona rumorosa che accende il conflitto; la “farfalla”, persona dolce che rende il clima pacifico; la giraffa, tipica trasposizione dei curiosi che vengono lì solo per vedere senza partecipare alle discussioni; o la mosca, fastidiosa e forse inutile. Le metafore, poi, sono anche occasioni per coinvolgere i partecipanti ad inventarne di nuove, creando consenso, interiorizzazione e fidelizzazione al metodo.
Ma tutto il metodo è una grande macchina per il gioco ed il coinvolgimento. Catturare consenso e lascia aperti spiragli di conquista delle regole, senza minacciare l’efficacia o il funzionamento della tecnica-metodo (Garramone, Aicardi, 2010).
4. Due occasioni di partecipazione: pianificazione e formazione
Infine, due impieghi della partecipazione possono mostrare la grande variabilità e trasversalità del concetto stesso. Una di queste è la pianificazione. La progettazione partecipata attiva già in esperienze comunitarie del dopoguerra, si è andata sempre più consolidando a partire dagli anni sessanta (Garramone, 2007) per diventare negli anni novanta armamentario dei programmi complessi e di tutta la costruzione di politiche pubbliche urbane stile Agende 21 Locali (Mattiazzi et al., 2017).
La partecipazione porta così contenuti, consenso, valutazione delle alternative ed implementazione dei piani. Diviene anche occasione di apprendimento collettivo e capacity building tanto dei destinatari quanto dei tecnici incaricati dei piani stessi. E sull’aspetto della formazione occorre soffermarsi anche per considerare l’uso del concetto in altri ambiti quali quelli organizzativi e di management, dove la partecipazione diviene strumento di vero e proprio di apprendimento organizzativo e di empowerment collettivo.
Bibliografia essenziale
Garramone V., Aicardi M. (a cura di) (2010), Paradise l’OST? Spunti per l’uso e l’analisi dell’Open Space Technology, Franco Angeli, Milano.
Garramone V., Aicardi M. (a cura di) (2011), Democrazia partecipata ed Electronic Town Meeting. Incontri ravvicinati del terzo tipo, Franco Angeli, Milano.
Garramone V. (2007), L’intervista aperta, le immagini di una città e la voce degli invisibili che si muovono a Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata (scaricabile al sito http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1140&id=100490&typePub=100241).
Mattiazzi G., Garramone V., Lancerin L., Francesco Musco F. (2017), “Partecipazione pubblica in Veneto: verso una tecnologia dei processi decisionali”, Economia e Società Regionale, XXXV (1), pp. 81-98.
Verba S., Nie J.(1972), Participation in America. Political democracy and social equality, Harper & Row, New York.
Kuhn, T. (1969), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, traduzione A. Carugo (1° ed. originale: The Structure of Scientific Revolutions, 1962, The University of Chicago).
Bobbio, L. (2002), “Le arene deliberative”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 3, pp. 5-29.
Sclavi M. (2011), “La trasformazione dei conflitti. Disciplina accademica sui generis e sapere della vita quotidiana”, Riflessioni Sistemiche, n.4, pp. 114-24.
Owen H. (2008), Open Space Technology. Guida all’uso, Genius Loci editore, Milano, traduzione G. de Luzenberger (1° ed. originale: Open Space Technology: A Use’'s Guide, 1992, Berrett-Koehler, Oakland).
Durante gli anni ’60, la comunità professionale degli operatori della cooperazione internazionale per lo sviluppo si è posta questa domanda: “Perché molto spesso gli interventi, i progetti finanziati dai Paesi donatori non riescono a generare un vero e duraturo sviluppo?”. Era ed è una domanda “da un milione di dollari”, tuttavia se vogliamo rimanere al livello tecnico delle metodologie di progettazione, la risposta, valida ancora oggi, è che “il punto di vista adottato nella fase della progettazione è quello del Paese donatore, senza che si tengano in debito conto le esigenze, i problemi e le “vision” percepiti ed espressi dalle controparti locali e dai beneficiari finali”.
La soluzione fu di elaborare, soprattutto ad opera della Agenzia nazionale di cooperazione allo sviluppo tedesca GTZ (oggi ITZ), una metodologia di progettazione (GOPP, Goal Oriented Project Planning, progettazione per obiettivi in italiano) che ribaltasse la prassi tradizionale secondo cui il progetto di sviluppo veniva ideato e scritto da un esperto della materia ma che permettesse di impostare il progetto sin dall’inizio sulla base dei problemi, bisogni, e istanze dei beneficiari.
Questo nuovo approccio mira a elevare la qualità dei progetti e degli interventi di sviluppo, migliorandone:
• la pertinenza, e cioè l’aderenza dei progetti ai problemi reali e quotidiani dei beneficiari finali;
• la coerenza interna, e cioè la reale capacità dei progetti di raggiungere un determinato risultato mettendo in campo adeguate risorse;
• la sostenibilità, ovvero la capacità dei progetti di dare vita a meccanismi virtuosi che producano uno sviluppo “autogenerato” senza ricorrere a ulteriori finanziamenti “esogeni”.
Dal punto di vista operativo, la metodologia GOPP prevede che stakeholders, beneficiari e altri “attori-chiave” si riuniscano in un incontro di lavoro (identification workshop) nel quale, assistiti da un facilitatore esperto del metodo ma neutrale rispetto ai contenuti, definiscono in modo chiaro e soprattutto condiviso le caratteristiche fondamentali di un progetto di sviluppo nel loro ambito, settore o territorio. Il workshop GOPP dura circa 2/3 giornate e il numero massimo di partecipanti è 20.
Il funzionamento del processo decisionale nel GOPP è per consenso: il facilitatore assicura a ogni attore-stakeholder lo stesso peso in termini di contributo al lavoro di gruppo e alla discussione e le decisioni finali devono costruirsi col consenso di tutti i soggetti partecipanti.
Il percorso di lavoro previsto dalla metodologia GOPP si articola in due fasi:
Nella prima, gli attori-chiave presenti sono chiamati in primo luogo a rendere espliciti da un lato le risorse e i contributi che loro stessi possono offrire al progetto (es. capacità di mobilitazione dei beneficiari, disponibilità di locali e strutture, informazioni, fondi, know-how specifico ecc.) e, dall’altro, l’interesse che li muove a sostenerlo e impegnarcisi.
In fase di analisi l’operazione fondamentale che i partecipanti compiono con l’ausilio del facilitatore, e che determina importanti implicazioni per le successive scelte progettuali, è l’analisi del contesto o del settore o del territorio, che il GOPP definisce più precisamente come Analisi dei Problemi.
In generale il problema principale è “dato” (elevata obesità infantile, inquinamento delle falde acquifere, disoccupazione giovanile, scarso sviluppo turistico, tanto per fare degli esempi) e il lavoro dei partecipanti è identificare le cause di questo problema articolandole in un diagramma di causa-effetto denominato Albero dei Problemi.
L’approccio “per problemi” dovrebbe garantire una maggiore aderenza del progetto ai veri problemi dei beneficiari o del territorio in cui si sta progettando e una maggiore possibilità di risolverli.
Un esempio di Albero dei Problemi, immaginando un progetto sull’obesità infantile, è questo:
Nella fase di progettazione, attori-chiave e stakeholders, sulla base del risultato dell’analisi (Albero degli Obiettivi) e sempre assistiti dal facilitatore, definiscono in modo condiviso gli elementi fondamentali del progetto utilizzando lo strumento del Quadro Logico (1).
Il Quadro Logico aiuta a definire in maniera chiara:
Un esempio di Quadro Logico, sempre sul tema dell’obesità infantile, è riportato nella fig. 1.
Il facilitatore GOPP mette in campo diversi fattori per la buona riuscita di un workshop:
La metodologia GOPP è divenuta, a partire dagli anni ’60, sempre più uno standard di riferimento nel settore della cooperazione allo sviluppo. Questo approccio, che assembla la partecipazione dei beneficiari e l’uso di strumenti strutturati, è stato adottato da numerose Agenzie nazionali di cooperazione allo sviluppo (oltre alla già citata GTZ la danese Danida, la svedese Sida e la norvegese Norad) e da alcune Agenzie dell’ONU quali FAO e UNIDO con il nome di LFA Logical Framework Approach, intendendo con questo un insieme di concetti e di strumenti che, nella gestione di programmi e di interventi di sviluppo, offrisse questi vantaggi:
Nei decenni successivi, in particolare da quando la Commissione europea ha reso pienamente operativa la Direzione Generale Cooperazione allo sviluppo (EuropeAid), lo stesso approccio è stato adottato in ambito comunitario prima da questa e in seguito anche da altre Direzioni Generali, sebbene con modalità e intensità variabili (DG Ambiente, DG Lavoro e affari Sociali, DG Istruzione, DG PMI).
Nella Commissione europea questo approccio è stato denominato PCM, Project Cycle Management (Gestione del Ciclo del Progetto) e più recentemente PPCM, Programme and Project Cycle Management, e poi ancora RBM, Results Based Management (Gestione orientata ai risultati). E’ importante chiarire, anche per spiegare l’acronimo PCM riferito alla gestione del ciclo del progetto, che PCM (o RBM) costituisce un approccio complessivo alla gestione di programmi e di progetti che applica strumenti diversi in tutte le fasi del loro ciclo di vita (programmazione, progettazione, realizzazione, valutazione) e non solo in quella di progettazione, dove si applica il metodo GOPP. Essendo e rimanendo tuttavia la metodologia GOPP lo strumento più utilizzato e conosciuto tra quelli del PCM, i due termini spesso sono usati come sinonimi (“abbiamo progettato con il PCM”).
Semmai, è sorprendente costatare come l’approccio PCM/GOPP resti ancora l’unico metodo strutturato di progettazione nell’ambito dei fondi pubblici.
A più di 50 anni dalla sua nascita, è difficile fare un bilancio dell’applicazione del GOPP nel settore dei fondi pubblici per lo sviluppo. Certamente il metodo ha denotato alcuni limiti, soprattutto dal punto di vista della sua effettiva attuazione come metodo partecipativo: la numerosità del gruppo di lavoro (massimo 20 persone) restringe il campo di applicazione del GOPP ad ambiti circoscritti; la relativa lunghezza di tutto il procedimento (2/3 giornate di lavoro) rende oneroso l’impegno di progettazione soprattutto se il finanziamento al progetto non è assicurato; il suo approccio “per problemi” a 360° lo rende sovradimensionato nel caso di progetti di fatto già incentrati su elementi di natura soft, intangibile o trasversale.
Il valore aggiunto dell’approccio PCM/GOPP è stato ed è di offrire agli addetti ai lavori, a tutti i livelli, un quadro di riferimento condiviso per una riflessione più strutturata e meno episodica sulla qualità degli investimenti pubblici per lo sviluppo.
Fig. 1 Il Quadro Logico del nostro esempio
(1) Nel 2015 la Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo della Commissione europea ha diffuso una nuova versione del Quadro Logico, che differisce da quella tradizionale proposta in questo articolo per due aspetti: omette il livello degli Obiettivi Generali e introduce un nuovo livello per i Prodotti (outputs, deliverables).
Bibliografia essenziale
European Commission, Aid Delivery Methods, Project Cycle Management Guidelines, Volume I, Marzo 2004.
Formez, Project Cycle Management, Manuale per la formazione, Strumenti Formez n. 04, Marzo 2002.
Bussi, Federico, Progettare in partenariato, Guida alla conduzione di gruppi di lavoro con il metodo GOPP, F. Angeli, Milano, 2001.
Stroppiana, Andrea, Progettare in contesti difficili, Una nuova lettura del Quadro Logico, F. Angeli, Milano, 2009.
Santos, Rui Miguel, Project Cycle Mangement and the Development Aid Industry.
Risorse web
Projects for change!, Gruppo di discussione Linkedin dedicato a professionisti che ai diversi livelli utilizzano l’approccio PCM/GOPP
https://www.linkedin.com/groups/1578607
LFA Workshop Moderators, Gruppo di discussione Linkedin dedicato ai facilitatori di workshop GOPP
https://www.linkedin.com/groups/2119404