Diciotto anni di vita non saranno esattamente un’era geologica, ma sono comunque sufficienti per  sancire la raggiunta maturità: degli esseri umani, certo, ma senza troppo sforzo anche di altri soggetti: organizzazioni sociali e politiche, prodotti della manifattura, opere dell’ingegno… fino ad arrivare alle stesse leggi.
La legge 388, nata nell’anno 2000, ha per l’appunto compiuto diciotto anni di vita: la maturità. Quanto basta per tentarne analisi, diagnosi, forse terapie.
Prima di questa nascita, la formazione continua era per molti, per i più, un oggetto misterioso, fluttuante nel mare indistinto della «formazione professionale»: solo pochi addetti ai lavori sapevano di cosa si parlava quando qualcuno citava il cosiddetto «0,30», forse neppure la più gran parte dei consulenti del lavoro, dei commercialisti, degli addetti alle paghe all’interno delle aziende aveva realmente contezza del senso, dell’origine, e soprattutto della destinazione di questo piccolo, marginale frammento dell’ammontare degli oneri contributivi che le imprese italiane ogni benedetto mese versavano e versano nelle casse dell’INPS. D’altra parte…lo 0,30% dei contributi…il 3 per mille….capirai! Quattro soldi…
La denominazione esatta del tributo è, più o meno, «assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria», in vigore dal 1978 (Legge n. 845 del 21.12.78), vale a dire da quarant’anni. In estrema sintesi, risorse per sostenere i lavoratori disoccupati a seguito di crisi aziendali, fallimenti, licenziamenti, e così via. Cassa integrazione, quindi? Non solo, ma anche e soprattutto formazione continua, finalizzata a processi di replacement, formazione che fino a quel momento veniva erogata attraverso le Regioni, a titolo di cofinanziamento di contributi disposti, ad esempio, dal FSE.
Ci si accorse – meglio: qualcuno si accorse – dell’esistenza di questo 0,30 proprio con la legge 388 del 2000, e con la conseguente nascita dei primi Fondi paritetici interprofessionali, attorno al 2002-2003.
Questa la storia in pillole. E oggi? Quale bilancio trarre dall’esperienza dei «Fondi 0,30», come vengono comunemente chiamati? Diciamolo subito: un bilancio non trionfale.
Prima osservazione: la legge istitutiva (che in realtà è un piccolo comma della Legge finanziaria del 2000) parla di organizzazioni sindacali e datoriali «maggiormente rappresentative» quali soggetti titolati a costituire i Fondi. «Maggiormente» rappresentative? Con gli anni i Fondi sono aumentati di numero, oggi sono 22 (di cui 3 commissariati dal Ministero del Lavoro). A scorrere l’elenco dei soggetti costituenti i Fondi viene il capogiro: si scopre l’esistenza di organizzazioni, sia sindacali che dei datori di lavoro, sulla cui «maggiore» rappresentatività è lecito nutrire più di qualche perplessità, per usare un eufemismo.
Seconda osservazione: la scarna legge istitutiva e la ormai invecchiata «Circolare 36» del Ministero dettano poche e insufficienti norme e regole sui Fondi. Con gli anni, se da un lato i pubblici poteri si sono esercitati nell’italianissimo sport dell’accanimento burocratico, finendo con l’invischiare i Fondi in una ragnatela di pastoie formali il cui gravame procedurale è pari solo alla loro sostanziale inutilità, dall’altro gli stessi pubblici poteri hanno fatto finta di non accorgersi del proliferare di prassi molto disinvolte adottate da alcuni Fondi molto – come dire? – «creativi», nella distribuzione delle risorse.
Risorse, si badi bene, che i più recenti pronunciamenti delle autorità costituite, dopo anni di defatiganti dibattiti, tra Consiglio di Stato, TAR del Lazio, Cassazione e via enumerando, sono state definitivamente riconosciute come «pubbliche»: e non poteva che essere così, dal momento che lo «0,30» è un versamento contributivo obbligatorio, dovuto per legge e semplicemente «devoluto» a soggetti privati (i Fondi) ma con una precisa destinazione d’uso. Lo 0,30, cioè, non è come (tanto per fare un esempio) l’8 per mille devoluto dai contribuenti alle chiese o alle organizzazioni umanitarie: dell’8 per mille i destinatari fanno in sostanza quello che gli pare, con lo 0,30 i Fondi devono finanziare comunque solo la formazione continua.
E qui tornano in ballo le regole. A parte il lodevole, recentissimo pronunciamento dell’ANPAL, che ha proibito i cosiddetti «conti formazione aggregati», sulle rimanenti norme e regole per la distribuzione delle risorse dei Fondi permane una fitta nebbia. Si noti, per inciso, che i «conti formazione aggregati», oggi vietati, hanno costituito comunque per anni un artificio procedurale sostanzialmente malsano, che ha consentito ai gestori «creativi» di alcuni Fondi di indirizzare l’erogazione delle risorse verso ben precisi «bacini di utenza», con un conseguente duplice effetto: di concentrazione di interessi e di dumping sul mercato dei Fondi.
Perché di fatto, quello dei Fondi è divenuto sempre di più, un «mercato»: oltre tutto un mercato se non senza regole, comunque dotato di regole scarse e contraddittorie. Per fare solo un esempio: cosa dire di un sistema nel quale l’erogazione di risorse dai Fondi alle aziende aderenti viene considerato aiuto di stato se i contributi vengono assegnati col meccanismo degli Avvisi (o bandi) e non viene considerato aiuto di stato se gli stessi contributi vengono concessi attraverso il «conto formazione individuale»? Se le risorse dello «0,30» sono pubbliche (e lo sono…), sono e rimangono sempre pubbliche, a prescindere dalla procedura con la quale vengono assegnate alle aziende, e quindi sono e rimangono sempre aiuti di stato. Sancire il contrario configura quello che, a mio avviso, è un vero e proprio «mostro giuridico».
Chi scrive avanzò anni fa, suscitando scandalo tra i colleghi di altri Fondi, la proposta di una Legge sui Fondi: una vera legge, non le poche righe della finanziaria del 2000. Ci fu chi disse: ci mancherebbe altro! Con una legge sui Fondi ci metterebbero il bavaglio, limiterebbero la nostra libertà di azione, ci costringerebbero all’interno di un recinto invalicabile di prescrizioni! Già: e non è proprio quello che è successo in maniera surrettizia in questi anni? Circolari, sentenze, nuove normative (ultima quella del MISE proprio sul controllo degli aiuti di Stato) non hanno forse sortito lo stesso risultato, se non addirittura un risultato peggiore, di quello che avrebbe potuto originarsi da una Legge ben fatta sui Fondi? Ai critici di questa proposta, che ritengo tuttora valida, vorrei ricordare sommessamente che le leggi nel nostro Paese si possono, se si è capaci, non solo applicare e magari subire, ma anche proporre e magari scrivere…
Ma tant’è. In questo quadro le prospettive dei Fondi 0,30 non appaiono né rosee né confortanti. Temiamo anzi che, grazie da un lato alla superficialità e/o all’ambiguità della politica e dall’altro all’insipienza delle stesse parti sociali – tutte e sempre più in crisi di identità – i Fondi si stiano avviando a costituire niente più che un pezzo, magari rilevante, di un network, o «rete», incardinata nell’ANPAL, che nell’annaspare dei soggetti deputati della rappresentanza sociale riscopre il primato del «pubblico»: per riprendere vecchi slogan, non siamo più al «meno stato più mercato», e neppure alla sua evoluzione «più mercato nello stato», quanto piuttosto a una sorta di «più stato nel mercato», o forse addirittura «più stato» e basta là.
Note preoccupanti: confesso di non essere aggiornato (da direttore di un Fondo non ho più molto tempo da sottrarre alla quotidiana lotta contro il moloch burocratico…) ma mi risulta che in Francia, dove i Fondi interprofessionali per la formazione continua hanno non diciotto ma oltre cinquant’anni di vita, si sta procedendo alla nazionalizzazione dell’ormai unico Fondo, l’Agefos, che ha di fatto assorbito una trentina di «Fondini» microscopici (i pochi altri moriranno di inedia…). Mi sa che in Italia, a meno di significativi cambi di scenario politico, di cui non si vedono peraltro le avvisaglie, finiremo col fare la stessa fine.
Tuttavia, tanto per lanciare in conclusione anche un messaggio di speranza, non è poi detto che debba per forza finire così. Dipende da diversi soggetti e da diversi elementi. Innanzitutto la temperie politica. Mentre scriviamo non sappiamo ancora cosa uscirà dalle urne il 4 marzo: quel che è probabile se non certo, almeno secondo me, è che la stagione dell’attacco frontale della politica contro le rappresentanze sociali è finita. L’illusione, infondata e malsana, ma palesemente coltivata dal governo Renzi, di poter fare a meno del confronto con i soggetti titolari della rappresentanza ha mostrato tutti i suoi limiti: non si governa un Paese retto da un sistema democratico escludendo o saltando a piè pari l’intermediazione sociale costituita dalle rappresentanze imprenditoriali e dai sindacati dei lavoratori. In secondo luogo, dipende dallo stesso dibattito interno al mondo delle associazioni datoriali e dei sindacati: si ha la sensazione, ci si augura fondata, che i nuovi timonieri stiano iniziando a ragionare attorno a un cambio di rotta, teso a privilegiare l’innovazione a 360 gradi rispetto alla conservazione di posizioni corporative che, non foss’altro che in considerazione degli scenari macroeconomici della rivoluzione digitale (qui si fa il 4.0 o si muore…), non hanno più nessun motivo di esistere.
Insomma, da un cambio radicale di paradigmi e di geometrie, in politica, in economia, nel sociale, possono nascere nuove prospettive anche per i benedetti Fondi 0,30.
È, tanto per cambiare, una questione di volontà, una questione di uomini, perché si sa: sono gli uomini che fanno le cose. Ad maiora.