Partiamo da una constatazione: non c’è una persona al mondo che non si sia trovata in un modo o nell’altro impattata della Pandemia. Potremmo ipotizzare un eventuale Robinson Crusoe, ma non mi pare un esempio significativo. Parliamo più in generale e di generale ne abbiamo una considerevole quantità e discrete qualità. Il Covid-19 e il modo in cui viene gestito da nazioni e singoli, è presente da svariati mesi e scandisce una nuova routine, delle nuove esigenze, spesso anche un diverso stato d’animo. Esiste un Prima. Si parla e forse ancor più si pensa al Prima sia che si aspetti il suo ritorno, uguale, conosciuto, rassicurante (la nostalgia fa anche questi effetti), sia che si pensi che un Prima uguale a prima, non ci sarà più.
Tutto questo riguarda anche la società per cui lavoro, una realtà globale operante nei settori farmaceutico e chimico. In modo abbastanza repentino ci si è trovati in una nuova situazione, ha preso vita e consistenza una nuova parola: lockdown. Ci si è trovati chiusi in casa e senza la possibilità di incontrare i propri interlocutori e colleghi. Almeno… non poterli incontrare di persona. L’unica era passare al virtuale. Ma come? Non mi riferisco alle infrastrutture; reti e computer esistevano già, anche se forse utilizzati per altri scopi che non per "lavorare" dal proprio salotto, o cucina, o stanza dei bambini. È nato così il "Digital Lab", un progetto voluto e promosso dai Direttori dell’azienda, con l’obiettivo di rifocalizzare l’impatto sugli interlocutori esterni e anche su quelli interni. Dopo una prima fase di stasi e di attesa, si è palesata la necessità di creare nuove modalità di lavorare e soprattutto nuove forme di interazione, dunque, delle nuove abilità per interagire. Questo progetto, messo in piedi in pochissimo tempo, è stato un modo di reagire al lockdown, ma non solo. Verosimilmente, quando il virus e/o il lockdown saranno un ricordo, rimarranno delle modalità di lavoro miste e quanto imparato e scoperto in questo periodo, resterà come espansione, non sostituzione, delle modalità precedenti presenziali.
Il progetto ha riguardato 110 persone, organizzate in 19 gruppi transfunzionali che si incontravano da remoto in contemporanea, discutendo su come svolgere il proprio lavoro, quello stesso di prima, con modalità nuove. Ogni gruppo aveva un capogruppo a cui venivano date le indicazioni e i materiali per i lavori della sessione successiva e soprattutto la responsabilità della facilitazione. Questa formula ha funzionato molto bene, sia nella fase di brainstorming, sia nella messa a terra dei piani d’azione. Il piccolo gruppo condotto da un collega ha limitato le resistenze e facilmente spronato il mettersi in gioco. I punti salienti emersi nei lavori di gruppo venivano poi riportati in plenaria, dove partecipavano anche le figure apicali dell’azienda, curiosi e spesso stupiti della qualità delle idee prodotte e dei risultati finali. Nelle plenarie sono state anche fatte delle brevi sessioni formative sulla tecnologia e sulla filosofia del lavoro da remoto che poi venivano discussi, sperimentati e impostati nei piccoli gruppi. Parallelamente le funzioni deputate all’interno dell’azienda hanno lavorato per produrre contenuti e materiali che potessero essere fruiti da remoto, quindi anche da questo punto di vista, serviva un nuovo approccio.

Un progetto di impatto sul mindset

Questo però non è stato solo un progetto sull’utilizzo del digitale per creare degli ambienti virtuali, supportati da contenuti fruibili virtualmente, in mancanza della possibilità di andare a incontrare di persona i propri interlocutori. Prima di ogni altra cosa questo è un progetto di impatto sul mindset: ci siamo trovati davanti a un mondo che è cambiato ed è da qui che siamo partiti. Se pensiamo al mindset non come una scatola dove si deve cambiare o aggiustare qualcosa, ma come il consolidato della nostra storia di abitudini e comportamenti che abbiamo attuato e reiterato nel tempo, che ci orientano e agevolano nel mondo, diventa evidente che nel momento in cui il mondo cambia, se non vogliamo rispondere e comportarci nel "nuovo mondo" con un modo di pensare "vecchio", bisogna trovare delle risposte e dei comportamenti che funzionano meglio in questa realtà.
Il fatto è che non ci sono risposte certe di fronte a tali rivoluzioni, nessuno le ha, si possono però cercare, immaginare, realizzare. Si può imparare e tenere quello che funziona e smettere di fare quello che non funziona. Questo è stato il primo asset del progetto: creare questo nuovo approccio, questa nuova angolatura da cui osservare e interpretare sia la realtà, sia le possibilità che quindi vi vedo e mi do.
Come prima cosa la realtà diversa va compresa e vanno compresi soprattutto gli atteggiamenti con cui ci si predispone. Si può prendere atto della situazione "così com’è" e decidere che l’unica effettiva risposta è cambiare noi stessi, oppure semplicemente resistere e attendere che passi. È stato interessante notare come sin da subito, la popolazione si sia divisa in due, bastava ascoltare le varie conversazioni: quelle dove si parlava di tutto ciò come di una situazione esterna, transitoria, brutta certo, ma che terminerà, speriamo presto, con tanto di spiegazioni sul perché le cose non funzionano e non si possono fare. Conversazioni che di fatto non producono soluzioni e lasciano un senso di frustrazione, di impotenza e anche di rabbia. Oppure conversazioni e questionamenti su cosa si può fare per raggiungere un determinato scopo, su quali ipotesi si possono perseguire e sperimentare. Conversazioni che spiegano oppure conversazioni che si interrogano. Conversazioni dove si parla del passato o del futuro. Conversazioni dove si vede il mondo come più piccolo e limitato perché ci hanno sottratto la possibilità di agire come agivamo, o come un modo espanso con delle possibilità da costruire.

Cosa serve fare nel nuovo mondo

Il sottotitolo del Lab è "Laboratorio per un nuovo mondo": si è lavorato su "cosa serve fare" nel nuovo mondo, poi, a seguire, sul come farlo. I canali e gli strumenti digitali sono venuti dopo e sono stati appresi in maniera molto più fluida in quanto non si imparava a usare un nuovo tool, ma era il mezzo che mi consentiva di arrivare dove mi ero preposto.
Il progetto si è esteso per cinque settimane e parlando di metodologia di lavoro, i piccoli gruppi sono stati impostati con i seguenti step, reiterati in più fasi, partendo dagli interlocutori e dagli scenari meno complessi e aumentando man mano il grado di difficoltà:

  1.  Analisi dello scenario: cosa stava cambiando in generale e come stava cambiando lo scenario per gli interlocutori. Cosa si sapeva e cosa andava approfondito. Cosa indagare. Cosa domandare.
    a.    Ipotesi su bisogni e nuove esigenze.
    b.    Ipotesi sulle nuove possibilità da offrire/costruire.
    c.    Modi per intercettare gli interlocutori lavorando da remoto e attraverso quali canali.
  2. Messa a terra: proposte, obiettivi da perseguire e piani d’azione da sperimentare e verificare sul campo.
  3. Fase di interazione da remoto: contatti attraverso i vari canali e verifica delle ipotesi. Comprensione e aggiornamento sulla realtà degli interlocutori. Proposte di collaborazione adeguate e rispondenti alla nuova realtà.
  4. Feedback nei gruppi: cosa ha funzionato, cosa no, cosa rifare e cosa lasciare, e quali nuove ipotesi e nuove proposte si potevano formulare e azzardare a seguire.

Ora siamo in una nuova fase dopo qualche mese dalla chiusura del progetto. I risultati sono stati i più variegati, di fatto più o meno felicemente, più o meno efficacemente, tutti i partecipanti si sono organizzati per interagire e/o per costruire progetti soprattutto in modalità virtuale. Alcuni sono stati un copia-incolla delle modalità precedente, quelle che funzionavano prima e, ahimè, anche quelle che non funzionavano, adattate come possibile ai nuovi mezzi. Altre invece sono state iniziative innovative, con risultati misurabili in termini di raggiungimento degli obiettivi, rispetto dei tempi e di soddisfazione e che indicano un nuovo modo di pensare, di proporre e di raccogliere.
In questa seconda fase la sfida è di pensare a quale futuro arriverà, cosa si vuole costruire, a cosa si può rinunciare e a cosa no. Chi si vuole essere. In un contesto diverso forse anche l’identità, o quanto meno il modo di stare al mondo, di vedersi agire e costruire, va ripensato, riadattato.

Cosa continueremo a fare da remoto, quando non ci saremo più costretti?

Ipotizzo che sia il momento di tornare all’idea di tecnologia, semplicemente definita come espansione del proprio corpo, dunque cosa ci consente di fare, dove ci consente di arrivare. Non si tratta di "imparare" a usare nuovi strumenti tecnologici, ma di pensare quali scenari ci troveremo e quali possiamo costruire. Di fatto nei momenti in cui gli schemi saltano, e mi pare che il momento attuale possa essere descritto anche così, servono nuovi schemi. Arriveranno comunque nuovi schemi, che noi lo decidiamo o no. Anzi, viviamo una realtà "diversa" da orami parecchio tempo. Abbiamo bisogno anche di cose diverse e, soprattutto, di tante ci siamo resi conto che ne possiamo fare a meno. Stiamo imparando a vivere, lavorare, interagire, fare la spesa, attraverso uno schermo, non tutto è un sostituibile, ma in certi casi funziona meglio di prima. Stiamo anche prendendo dimestichezza con gli strumenti, sempre più si sta familiarizzando e capendo le peculiarità e le possibilità che ci sono nell’utilizzarli. Chissà cosa continueremo a fare da remoto, quando non ci saremo più costretti… Sì perché l’ideale e saper scegliere, capire cosa funziona meglio da una parte e cosa dall’altra, tenere il buono dell’una e dell’altra.
La verità è che al di là delle ipotesi nessuno sa come sarà il nostro futuro e che ne sarà del virus e della/e pandemia, possiamo fare e accettare scommesse. Possiamo anche però farci delle domande su come vogliamo essere noi, che cosa ci renderà soddisfatti e che cosa possiamo realizzare. Forse dobbiamo semplicemente fare quello che l’Umanità (notare la maiuscola) ha sempre fatto, imparare a stare al mondo e cercare di prosperare.