Tra nuovi assaggi e scoperte gastronomiche
I dolci io li ho sempre snobbati.
Radicalmente. In cucina come a tavola.
E ho sempre sfoggiato ottime prestazioni in entrambe le discipline. Sono quella a cui "meglio regalarti un vestito che portarti a cena fuori" perché mai sazia, sempre pronta a trovare uno spazio per nuovi assaggi e scoperte gastronomiche... Purché non si tratti di dessert. Difficile da credere, lo so.
Da quando ho fatto il primo sugo, il mio impegno ai fornelli é massimo. Tempo, cura, energia: dalla ricerca dell'ingrediente giusto, fino alla presentazione del piatto. Quando cucino non mi risparmio... Purché non si tratti di dolci. Quelli no, non li mangio neanche a colazione, figuriamoci se li cucino! Nelle mie ricette preferite lo zucchero presenzia solo nella caponata e nelle cipolle in agrodolce. Le cene da me sono rinomate occasioni di gaudio e gozzoviglio, ma chi vuole il dolce, sa di doverlo portare. Perché la latitanza dei dessert é scientifica.
Trincerata dietro la romantica giustificazione che, senza amore, é impossibile sfornare buona cucina, ho sempre difeso la mia posizione con tenacia e ottusa convinzione.
La verità é che i dolci spaventano. Perché sono difficili. Con i dessert non c'è margine di errore, né la possibilità di correggersi in corsa: la ricetta é vincolante, l'improvvisazione preclusa. "Non fa per te", con queste parole, l'insicurezza, mia fedelissima compagna di vita, mi ha sempre impedito qualsiasi interazione con la pasticceria. Ed io le ho sempre dato ascolto. Per forza, l'idea stessa della bilancia mi mette ansia. Impossibile confinare la regina dell'approssimazione in una prigione fatta di rigore e metodo, dove qualche grammo in più o in meno fanno davvero la differenza. Giammai. La creatività ai fornelli per me é tutto. Replicare lo stesso piatto mi annoia, seguire le ricette senza cambiarle almeno un pochino mortifica la mia fantasia perché, in cucina, io voglio sperimentare. Spensieratamente. Senza regole. Libera. Anche di sbagliare.
 
Mettersi in discussione
Poi é arrivato il lockdown a togliermi la libertà. 
A imprigionarmi davvero.
E a farmi capire che sbagliavo.
Mi é servita una pandemia per mettermi in discussione, demolire le impalcature dei miei no e aprirmi a una nuova, sorprendente, opportunità. 
Sì, durante il lockdown di marzo, per merito delle sue giornate fluide, complice l'ansia d'approvvigionamento, cavalcando il must nazionale del "fatto in casa" e rincorrendo l'ultima bustina di lievito disponibile, ho ceduto. E, dopo il pane e la pizza, ho fatto un dolce. Un ciambellone senza pretese. Facile.
Basso profilo e tanta umiltà.
Una ricetta a prova di principiante che non la sbaglierebbe neanche mia figlia di 8 anni e, soprattutto, una ricetta in cui si usa un vasetto di yogurth come unità di misura evitando così di dover pesare gli ingredienti. Perfetta per me: passi il ciambellone, ma la bilancia no, non mi avrà. Mi impegno molto, miscelo i miei vasetti neanche fossi un chimico alle prese con la combinazione di elementi eterogenei, seguo la ricetta senza cedere alla tentazione di aggiungere un mio tocco e sforno un risultato di tutto rispetto.
A casa, il successo é clamoroso; il ciambellone é buono e in due giorni ne restano solo le briciole.
Ed io ne faccio subito un altro. Ottimo.
Poi, un altro. Meglio, più soffice.
E ancora un altro. Con le gocce di cioccolato.
Di nuovo un altro. Variegato al cacao.
Sono tutti squisiti, uno meglio di un altro. 
Ed io compro la bilancia.
 
Inizia la metamorfosi: dal salato al dolce
Ed è così che è iniziata la metamorfosi: sono entrata in lockdown mangiando pizza e caciotta a colazione e ne sono uscita Nonna Papera.
Il colpo di fulmine é scattato con una rivelazione che ha capovolto ogni mia convinzione: dolcificare é creatività allo stato puro. Non importa quanto sia vincolante la ricetta, il divieto alla libera sperimentazione e la bilancia non contano perché, quando fai un dolce, crei qualcosa che prima non esisteva. Letteralmente, crei. 
Nella cucina salata non é così. Puoi fare un arrosto buonissimo, puoi dargli "quel non so che di speciale" con la salsa, il grado di cottura, gli aromi, ma non hai creato niente. Perché l'arrosto, il pezzo di carne, già c'era; hai avuto bisogno del macellaio e, prima di lui, della mucca, per dar vita al piatto. Il dolce, invece, prima del nostro intervento, non esiste. É solo farina, zucchero, burro, uova. Che potrebbero diventare una frittata, ci si potrebbe condire la pasta insieme al parmigiano, si potrebbe mettere nel caffè, ci si potrebbero friggere le alici... e invece no, vengono fusi in una precisa combinazione e diventano quel dolce lì che prima non c'era. C'é qualcosa di magico in tutto questo (senza scomodare la religione, nel mio immaginario, solo i maghi creano le cose) e, da quando l'ho capito, ho tradito la mia insicurezza e mi sono permessa di provarci. Libera. Anche di sbagliare. Davvero.
La magia é che difficilmente sbaglio un dolce.

Ciambelloni, muffin, crostate, biscotti: la nostra casa inizia a profumare di pasta frolla e i prodotti industriali per la colazione spariscono progressivamente dagli scaffali della cucina. 

Imparare e attrezzarsi
Stordita da un ego con i super poteri (confesso di aver pensato per un istante che anche il pezzo di marmo con cui Michelangelo ha fatto il David, in fondo, già c'era... Un po' come l'arrosto), decido di essere pronta a fare sul serio.
E la serietà presuppone due step:
1. Lo studio
2. Gli strumenti.
Primo passo, lo studio. Se é vero che con i dolci non s'improvvisa, é arrivato il momento di scoprire le regole del gioco, la grammatica della pasticceria. Per ambire a varcare i confini dei ciambelloni, ho bisogno di competenza e approfondimento. La pratica ora esige la teoria. Le giornate infinite del lockdown sono dalla mia parte e ne approfitto per documentarmi e leggere molto: tecniche di base, creme, glasse, preparazioni, storia e aneddoti su questo o quel dessert e, soprattutto, tante, tantissime ricette. Le scrivo e le analizzo. Ne ricavo criteri e ne deduco prassi, individuo schemi e norme, capisco la logica che disciplina le diverse preparazioni e realizzo i processi specifici alla base dei diversi risultati. 
Capisco che in base alla modalità di trattamento e alla tempistica di assemblaggio, gli stessi ingredienti possono diventare dolci diversi. Invertendo l'ordine degli addendi, insomma, il risultato cambia e le combinazioni sono potenzialmente infinite. Tutto questo mi esalta e, alla fine dei miei studi, padroneggio così bene la teoria che, con stupore e orgoglio, sfato un tabù e azzardo una nuova consapevolezza: se li conosci davvero, i dolci puoi persino improvvisarli. Datemi degli ingredienti ed io vi farò una torta commestibile, anche senza seguire una ricetta. Oggi posso farlo.
Sazia di nozioni e digerito tutto lo scibile, smanio per passare alla fase due: gli strumenti. Ora so esattamente ciò di cui ho bisogno e sono perfettamente in grado di distinguere il vezzo, l'utile e l'indispensabile. Pochi clic su Amazon e il vuoto degli scaffali in cucina si riempie di stampi, cutter per biscotti, tegami, teglie specifiche per specifici dolci, pirottini in silicone, sac-a-poche con relativi beccucci e, infine ... le più desiderate, le più attese, le più importanti: le fruste elettriche, imprescindibili per fare il salto di qualità, perché, per quanto forti di braccio e determinati a fare tutto a mano, il risultato cambia. Con lo zampino dell'elettrodomestico, l'impasto incorpora più aria, monta, cresce in maniera diversa, solo così la meringa o la torta saranno davvero perfette, impalpabili, una nuvola al palato. Con delle buone fruste elettriche si può affrontare con successo praticamente qualsiasi dolce, anche Nonna Papera sarebbe d'accordo. Il passo successivo é la Planetaria, con lei si bussa alla porta del professionismo ma é costosa e gli scaffali della cucina sono pieni. Posso aspettare... per il momento.
Ultimo, ma fondamentale strumento, un libro firmato da una chef danese, dal titolo emblematico, Torte semplicissime, che nasconde tantissime chicche golose, torte originali, tutt'altro che semplicissime ma, tradotte in ricette essenziali, raccontate in uno stile, quello sì, semplicissimo. Il testo perfetto, insomma, per sgombrare il campo dalla retorica e avvicinare alla pasticceria anche il più accanito degli scettici. 
Ed io le ricette le testo praticamente tutte. Viaggio al ritmo di tre torte al giorno. In famiglia, c'é chi aggiunge un buco alla cinta e chi evoca lo spettro del diabete, ma io, incurante di tutto, mantengo il ritmo e proseguo dritta per la mia strada. 
 
Un nuovo lavoro
Capisco di dover allargare il giro degli assaggi quando una fetta di torta finisce nella spazzatura. Se l'offerta supera la domanda, serve una soluzione ed io la trovo, come sempre nella vita, nei miei amici. Fortunatamente ne ho tanti e sono abbastanza golosi da sfidare, autocertificazione alla mano, i posti di blocco disseminati in città. Io li premio confezionando con cura e amore i dolci e calandoli in un paniere dalla finestra. Funziona. La consegna é a rischio zero, l'incontro una gioia per tutti e i dolci un successone. Così prendo il via: compleanni, anniversari e ricorrenze diventano l'occasione perfetta per mettermi al lavoro e addolcire il lockdown delle persone che amo. Fioccano complimenti, la gratificazione é massima e l'autostima lievita. Condividere la mia nuova passione, aprirmi all'esterno mi permette di effettuare un ulteriore scatto di crescita: ora sono cosciente dei miei mezzi. Convinta. A tratti presuntuosa. Finalmente sicura.
Tanto sicura da accogliere l'idea balenata in un giorno qualunque della mia quarantena. Una scintilla. Una domanda "buttata lì" che, invece di dissolversi, si cristallizza prepotentemente nella mente: "E se diventasse un lavoro?".
Normalmente, mi sarei censurata. Avrei zittito i pensieri e liquidato la questione, ma nel lockdown non c'è niente di normale, solo tanto tempo per pensare e a me ne é servito pochissimo per respingere ogni obiezione e capire che l'idea é buona. Vendere dolci, a prezzi più accessibili di una pasticceria, ad una ristretta cerchia di amici e conoscenti per salvare la mia famiglia dall'iperglicemia e mettere a frutto le mie nuove competenze e il mio inaspettato talento. Funziona. Il progetto regge. Perché non solo sono brava e veloce, ormai, sono anche attenta alla forma e traduco le ispirazioni iconografiche tratte dal mio studio in torte esteticamente notevoli.
E, soprattutto, perché faccio tutto con il sorriso. Senza fatica. Sempre. Perché per me fare dolci é terapeutico, un antistress naturale, la migliore medicina contro ansia e claustrofobia da quarantena perché non c'è negatività o malumore che resista all'impasto che monta e trasformare tutto questo in una professione sarebbe come... mettere la ciliegina sulla torta. Provarci é d'obbligo.
Così, da un giorno all'altro, scelgo un nome, DolceMente, ed elaboro dei biglietti da visita on line che arrivano in meno di una settimana; definisco uno stile in linea con il biglietto da visita, fotografo secondo quell'atmosfera i miei dolci e creo dei volantini digitali; compro scatole, involucri e accessori per disporre di un packaging degno di una pasticceria; calcolatrice alla mano, faccio conti, quoto torte e porzioni, valuto le spese, ragiono e redigo un listino prezzi; infine, condivido il tutto con la ristretta cerchia di cui sopra. 
E sono felice. Adrenalinica. Orgogliosa e fiera di me.
DolceMente mi dà subito ragione. Funziona. Gli ordini fioccano, fatico quasi ad accontentare tutti, ma prendo il ritmo e, finalmente, domanda e offerta coincidono.
Sono passati mesi, siamo di nuovo, più o meno, in lockdown e DolceMente non teme il coprifuoco. Funziona ancora. Ho appena finito di aggiornare il listino con le offerte natalizie. Accidenti quante ne faccio. Quanta varietà e quanto ho imparato. Mai avrei immaginato di poter arricchire le mie, già variopinte competenze, di un nuovo talento. Almeno, ho un motivo per ringraziare questa odiosa pandemia.
Per la cronaca, i dolci io continuo a non mangiarli ... ma a Natale, mi regalo una planetaria.