Il luogo “aperto” per eccellenza
Da quando la casualità mi ha messo seduto per la prima volta dietro a una cattedra, ho provato a conservare la prospettiva che avevo allora, e cioè quella di un ex studente, di un individuo che fino a quel momento aveva contemplato una percezione esclusivamente fruitiva della scuola. Ho cercato insomma di tutelare in me lo sguardo di chi è lì per imparare, per colmare la distanza emotiva tra me e le classi, e per non cedere mai un’oncia di entusiasmo a quello che, nei miei giorni da studente, mi era sembrato l’avversario più difficile da affrontare, quello che più alzava il filtro affettivo tra me e l’istruzione: la struttura chiusa della scuola. Sono ancora persuaso che questa, con i suoi orari fissi e le sue scadenze, i suoi resoconti numerici e le sue maglie burocratiche, non ti prepari alla società adulta, ma ti costringa piuttosto ad adattarti ad essa. Il fatto che la scuola sia stata una delle prime istituzioni a chiudere, alla vigilia del disastro umano che stiamo attraversando, è altresì simbolico della fragilità della sua ratio fondante nel passato.
 
Quello che dovrebbe essere il luogo “aperto” per eccellenza, in cui costruire un’alternativa virtuosa a certi vicoli ciechi sociali e civili, è stato invece – perlomeno fino ai giorni che hanno preceduto il virus – troppo spesso un’imitazione isomorfica delle ingiustizie che affliggono la società. Una sorta di profezia autoavverantesi in cui la cultura non sempre si è fatta aggregazione armoniosa di una comunità in fieri, bensì merce di scambio tesa a garantire una retribuzione, che fosse in termini di voti, crediti, o posti di lavoro futuri.
 
Chiusi dentro quattro mura
Nel frattempo, la società dell’accumulo stipava di fatto per anni il capitale pre-adulto dentro quattro mura, mentre all’esterno depauperava la sanità e mortificava la cultura fino a rendere cedevoli le sue strutture fondanti. Poi, di fronte al rischio del collasso, si è affrettata a chiudere quelle quattro mura poiché incapace di tutelarle. Da quel momento, e non si sa ancora per quanto tempo, siamo tutti ostaggio della Didattica a Distanza. 
Da insegnante, la mia idea sulla DaD è abbastanza noiosa, e cioè che abbia lo stesso valore etico di ogni strumento umano: dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto che ne richiede l’uso. A volte è efficace e a volte no. A volte ci sono problemi di connessione reale, e a volte i problemi di connessione sono soltanto emotivi. Le ore passate davanti allo schermo si susseguono senza sosta, spesso all’inseguimento di programmi statali da completare o di trimestri che richiedono il loro tributo di numeri. Dall’una e dall’altra parte del terminale, però, ci sono persone sottoposte a uno stress gravissimo le cui conseguenze sono ancora inesplorate. 
Non riesco a fare un torto a uno studente che finge problemi tecnici per reclamare uno suo spazio di affrancamento da una didattica, che pretende di rimanere uguale a sé stessa mentre tutto intorno a essa è cambiato, forse per sempre. È già paradossale il fatto che si debba accedere a un modem privato per potersi garantire la fruizione tranquilla di un diritto costituzionale. In questi giorni mi capita di osservare i ragazzi e le ragazze separati, compressi in un condominio di finestre virtuali, con la voce distorta da filtri e filtri di tecnologia impersonale, e mi rendo conto che vorrei passare meno tempo a spiegare e interrogare, e più tempo ad ascoltarli. Ci provo, ma non basta, perché lo spazio non basta, il tempo non basta, le scadenze lo impediscono. Insomma, non basta aver costruito una società che non è in grado di tutelare il loro percorso formativo dal disastro, non basta non avere alternative al chiedergli di rinunciare alla socialità, pretendiamo anche che si adeguino ai piani d’emergenza di una classe dirigente adulta che li ha, di fatto, traditi.
 
Creare un laboratorio di ascolto permanente
Io stesso, dall’alto della mia vita adulta e delle pressioni alle quali questa è sottoposta, spesso durante la DaD mi sono presentato davanti al monitor con la presunzione di avere qualcosa di importante, di imprescindibile, da insegnare. Come se fosse un ordinario giorno di scuola. Confrontandoci con l’imprevisto della dimensione privata in cui sono immersi, stiamo invece imparando dai ragazzi che non esistono, e non devono esistere, giorni ordinari di scuola.
Mi rendo conto che rinunciare a un’ora di programma a settimana, alla ricerca di un momento di aggregazione, di condivisione, di dialogo, di redenzione della propria solitudine obbligata, non è un passo indietro, ma uno in avanti. È questa l’innovazione che auspico per la scuola in un momento così disorientato e disorientante: fare della scuola un laboratorio di ascolto permanente. Elastico, consensuale, reciproco. Un luogo in cui la didattica viene proposta e non imposta, in cui anche gli stessi studenti possano imparare ad ascoltarle, queste proposte. Proprio in virtù del fatto che lo stress emotivo e psicologico che stiamo affrontando è lo stesso da entrambi i lati della cattedra. 
 
Ripensare la società insieme agli studenti
In questi giorni di collasso stiamo sperimentando tutti ciò che a qualcuno di noi è sempre stato chiaro: i sistemi lavorativi ed economici sono fatti per agevolare l’esistenza, non per condizionarla. Nel momento in cui ciò avviene, è bene ricordare che questi sistemi sono fragili quanto la condizione umana che li determina. Pensare soltanto a sopravvivere alla pandemia per poi riprendere la propria attività così come era prima è un atto legittimo, ma se rimane un gesto fine a sé stesso, col tempo, verrà considerato egoistico.
La crisi che stiamo attraversando mi sta invece insegnando che, per ripensare la società che verrà, non importa quanto lontana, è necessario farlo insieme agli studenti. Confrontarsi e lavorare perché questa non sia più basata sull’identificazione con la propria produttività, ma sulla condivisione delle risorse, siano esse materiali, culturali, intellettuali o emotive. D’altronde, Covid o no, la scuola non è altro che uno specchio della società in cui questa sorge. Una società, che bada alle proprie strutture solo per conservarle e non per renderle virtuose o farle progredire, farà più fatica a garantire ai propri giovani un futuro al sicuro dalle proprie contraddizioni.
C’è bisogno allora che la società, così come la scuola, torni a considerare prioritario l’ascolto. Anche a scapito dei programmi, delle scadenze, dei consuntivi.
Domattina avrò la prima ora, non posso preparare venti tazzine di caffè e bermele tutte da solo, ma preparerò una tazzina di caffè da condividere con la classe. La metterò sul tavolo, a favore di telecamera, e la offrirò simbolicamente a chiunque voglia esprimere il proprio pensiero sul momento che stiamo vivendo, su cosa vorrebbe cambiare e su tutto ciò che invece gli/le manca, e a cui non vede l’ora di tornare. D’altronde, ognuno di noi sarà a casa sua. Tanto vale provare a sentircisi davvero.