* In “Formazione & Cambiamento”, n, 66, 2011
 
1. La ricerca: studiare il lavoro (e la sicurezza) in sala operatoria
Le osservazioni che presento sono parte di una più ampia ricerca avente a oggetto la costruzione della sicurezza organizzativa negli ambienti ospedalieri, con particolare riferimento alla sala operatoria (Bruni, 2010). 
Il presupposto teorico che ha orientato l’intera ricerca è stato che lavoro quotidiano e sicurezza organizzativa rappresentino due elementi inscindibili: la sicurezza può infatti essere oggetto di norme, protocolli  e linee guida, ma è nelle pratiche di lavoro quotidiano che questa acquisisce concretezza e salienza. Sempre da un punto di vista teorico, quindi, abbiamo rivolto la nostra attenzione non solo alla letteratura specifica (sia sociologica, sia clinico-manageriale) sulla sicurezza organizzativa in sala operatoria, ma anche a tutti quegli studi sul lavoro e sull’organizzazione di matrice interazionista che oggi confluiscono nel paradigma dell’azione situata (Goffman, 1956, 1959; Suchman, 1987) e nei cosiddetti ‘studi basati sulla pratica’ (Practice-based Studies – Gherardi, 2000, 2006). Questi interpretano il lavoro alla stregua di una performance che necessita costantemente di essere messa a punto (Garfinkel, 1967) e che risente sempre di una serie di adattamenti locali. La logica che ispira il metodo di analisi del lavoro in situazione è quindi l’osservazione dell’ordine che emerge dalle interazioni tra attori e non l’analisi del lavoro decontestualizzato, espresso in una job description
A seguito di alcune interviste esplorative, il lavoro sul campo si è articolato seguendo ‘come un’ombra’ (shadowing - Bruni, 2003; Czarniawska, 2007; Cardano, 2011) i diversi operatori facenti parte di una equipe chirurgica . In particolare, si è fatto ‘da ombra’ a:
- 1 Operatore Socio-Sanitario (OSS);
- 1 infermiere di anestesia;
- 1 anestesista;
- 1 strumentista;
- 1 chirurgo.
A queste figure, si sono poi aggiunti uno strumentista ‘novizio’, la caposala degli strumentisti e la caposala del blocco operatorio.
La scelta di seguire le due caposala è stata motivata dal voler aprire una finestra anche sul lavoro che ha luogo al di fuori dello spazio fisico della sala operatoria, essendo plausibile ipotizzare che i processi e le pratiche che prendono forma in sala operatoria (come in qualunque altro spazio dell’organizzazione) siano interconnessi con processi e pratiche che hanno luogo in altri spazi e tempi (Czarniawska, 2004).
Il seguire per una settimana un ‘ultimo arrivato’ è stato invece dettato dal voler osservare le pratiche di trasmissione e apprendimento del lavoro e dei processi organizzativi quotidiani. Più in generale, l’affiancamento dei novizi offre solitamente agli etnografi la possibilità di venire a contatto con tutta quella gamma di questioni e dubbi solitamente propri di chi, non conoscendo a fondo un’attività, non ne condivide i dato-per-scontato e, dunque, necessita di continue indicazioni in merito al da farsi (Bruni, 2011). 
Indipendentemente dall’operatore seguito, l’attività di shadowing ha in ogni caso ‘localizzato’ per 8 settimane le osservazioni all’interno del medesimo spazio organizzativo (il blocco operatorio con le sue diverse sale), cosa che ha permesso di ottenere degli account etnografici che restituissero tanto le diverse pratiche di lavoro, quanto la specificità del clima e delle interazioni che si sviluppano nell’ambiente osservato.
La sala operatoria è infatti un ambiente che si caratterizza senza dubbio anche per via della compresenza di diverse professionalità e competenze e, come risaputo in letteratura (Catino, 2009), è proprio nel coordinamento di diverse visioni professionali che alcuni processi organizzativi vengono messi alla prova. Infatti:
è possibile che gli attori condividano diverse visioni, logiche e expertise professionali, che quindi li portano a dissentire in merito al da farsi; 
è possibile che vi siano asimmetrie, gerarchie e rivalità (inter e intraprofessionali) che ‘affaticano’ i processi di coordinamento organizzativo e di cooperazione nel corso del lavoro quotidiano.
Nel corso della prossima sezione vedremo esempi di tutti e tre i casi appena nominati e ciò permetterà di sottolineare come l’area delle competenze inter e intraprofessionali si riveli cruciale per la gestione del lavoro quotidiano, ma, al tempo stesso, di mettere in luce come in sala operatoria proprio l’agire dettato dalle competenze appaia particolarmente delicato da tratteggiare e si leghi ad altre due questioni (peraltro a loro volta strettamente connesse): a) l’apprendimento e la formazione delle competenze; b) la presenza di molteplici (e mutevoli) comunità di pratica.
 
 
2. Lavorare in sala operatoria: logiche e visioni professionali 
Le diverse logiche e visioni professionali presenti in sala operatoria, prendono corpo, solitamente, in riferimento a tre situazioni in particolare: 1) nella pianificazione dei tempi dell’intervento; 2) in riferimento al posizionamento del/la paziente sul lettino operatorio;  3) in tutti quei casi in cui vi sono operatori che non hanno mai lavorato assieme.
L’esempio tipico della prima situazione è dato da tutti quegli episodi in cui i chirurghi, avendo l’attenzione centrata su ‘l’intervento’ e non considerando i tempi necessari alla preparazione della sala, al lavaggio dei ferri ed alla predisposizione degli strumenti operatori, si inalberano nel caso in cui la sala non sia pronta nel (breve) tempo da loro stimato; cosa che porta altrettanto facilmente a scambi di battute poco cortesi con gli strumentisti. Per altrettanto, non sempre gli operatori della sala operatoria tengono conto dei tempi che saranno necessari (in reparto) per la preparazione del paziente successivo (cosa che può condurre alla situazione paradossale, ma non rara, in cui tutto e tutti sono pronti, a parte il paziente, che è assente).
Nel corso del lavoro sul campo, è stato possibile osservare come sullo sfondo di questi disallineamenti nelle tempistiche, vi siano spesso le diverse logiche e visioni professionali che gli attori sviluppano nel corso del lavorare quotidiano. Il concetto di ‘visione professionale’ (Goodwin, 1994), sta infatti ad indicare come buona parte delle competenze professionali siano il frutto di una conoscenza che poggia su una serie di nozioni teoriche, ma che si affina nel corso dell’esperienza lavorativa quotidiana (e dunque in relazione allo specifico setting organizzativo in cui si lavora), sino a divenire ‘incorporata’ (da cui, ad esempio, il famoso ‘occhio clinico’).
È quindi l’affinamento di una particolare visione professionale a permettere (ad esempio) agli strumentisti di lavorare d’anticipo e passare ai chirurghi i ferri senza che questi ultimi li debbano chiedere; ai chirurghi di riconoscere esteticamente la qualità di una sutura; agli anestesisti di intubare i pazienti senza incontrare difficoltà; agli OSS di muoversi all’interno della sala senza intralciare i movimenti di altri operatori. 
Si intuisce quindi come lo sviluppo di una visione professionale sia strettamente collegato all’ambiente in cui l’apprendimento ha luogo ed alle figure più esperte che all’interno di questo si incontrano e con cui si ha la possibilità di collaborare, come nel caso a seguire:
 
Alle 8.30 l’anestesista intuba la paziente e l'intervento può cominciare. I due chirurghi disinfettano il campo operatorio e posizionano i teli sterili sul corpo della donna. L’OSS, subito dopo, su indicazione della chirurgo, cambia la posizione del letto, mettendo la paziente seduta. A questo punto l’infermiera di anestesia dice alla collega (in fase di inserimento): “Occhio sempre quando si sistemano i pazienti, perché magari si stacca qualche filo o la flebo”.
 
Nell’estratto appena visto, un’infermiera (esperta) richiama l’attenzione di una collega (in fase di formazione) su una competenza ‘di dettaglio’, evidentemente derivante dall’esperienza (controllare che nel corso del posizionamento del/la paziente non si stacchi qualche filo). La comunicazione è sintetica (è tipico che gli scambi verbali in S.O. siano ridotti al minimo), ma probabilmente efficace, in quanto indirizzata esplicitamente alla collega e con un incipit prescrittivo (“Occhio sempre…”). 
L’estratto vuole quindi essere rappresentativo sia della rilevanza dell’esercizio di una visione professionale, sia delle modalità con cui tale visione viene tramandata ai novizi (ovvero, attraverso il coinvolgimento diretto nel lavoro e la sottolineatura di alcune fasi e processi), ma anche della difficoltà di separare le pratiche di lavoro dalla costruzione sicurezza (Gherardi e Nicolini, 2000, 2001): nel caso particolare, l’infermiere sta imparando a lavorare o sta imparando la sicurezza?
Tra operatori è piuttosto diffusa l’idea che (per citare le parole di un chirurgo): “Quando si impara a lavorare, si impara anche la sicurezza…”. Questa affermazione (che costituisce la sintesi estrema e di senso comune dei risultati di innumerevoli ricerche presenti in letteratura), potrebbe portare a dedurre che, dunque, la sicurezza organizzativa venga esplicitamente tematizzata nei percorsi di formazione e apprendimento (ad esempio) dei ‘novizi’, ma non sempre è così. Il percorso formativo di infermieri ormai comprende (già in sede universitaria) l’apprendimento di alcune competenze inerenti la sicurezza sul lavoro, ma lo stesso non si può dire nel caso del percorso di studi di chirurghi ed anestesisti. Nei confronti dei chirurghi, in particolare, sembra anzi che vi sia una socializzazione esplicita allo sprezzo del pericolo. Come dichiarato da una chirurgo: “Il mio Primario mi diceva: “Se hai paura di pungerti, cambia mestiere…vai a fare la segretaria!”” (a dimostrazione di come, nell’apprendere una professione, si impari anche qual è la propria posizione di genere all’interno dell’immaginario simbolico della comunità professionale in cui si sta entrando - Bruni e Gherardi, 2007).
Indipendentemente però dalla professionalità, ciò che talvolta davvero sorprende del lavoro quotidiano in sala operatoria è la competenza che tutti/e gli operatori esperti/e dimostrano nel ‘saper fare un po’ di tutto’ e, di rimando, nel seguire (spesso invisibilmente) l’attività reciproca. Vediamo alcuni brevi esempi:
 
L'OSS toglie il camice ad un chirurgo, mentre l'altro “chiude” il campo operatorio con l'aiuto della strumentista, la quale non si limita solamente a passare i ferri al medico, ma “chiude” anche lei.
 
In sala è rimasto un solo chirurgo. La strumentista si posiziona di fronte al chirurgo (dove prima c'era l'altro medico) e lo aiuta passandogli i ferri di cui ha bisogno, ma anche utilizzando il bisturi elettrico (su richiesta del chirurgo).
 
In attesa che la strumentista ultimi la preparazione dei ferri per l’intervento, Mario (infermiere di anestesia) prepara il paziente in presala, facendosi aiutare da Francesca (infermiera di anestesia in affiancamento). Dopo appena un paio di minuti però, Mario si accorge che in sala è tutto pronto e che il dottor Ponte (l’anestesista) è andato via dalla sala. A questo punto, Mario dice a Francesca: “Preparalo tu [il paziente] che io vedo se riesco a trovare il dottor Ponte” e va via dalla sala.
 
Negli estratti proposti, si può notare come, per quanto i compiti dei membri dell’èquipe chirurgica siano definiti, vi è un costante riassestamento dei ruoli e delle attività, sulla base di quelli che sono gli avvenimenti e le esigenze contingenti. Da questo punto di vista, si potrebbe anche affermare che la principale competenza degli operatori (indipendentemente dalla loro appartenenza professionale) risieda proprio in questa abilità di continua ri-articolazione dei compiti tra i partecipanti alla seduta operatoria. Nel caso di alcune figure professionali, non a caso, tale abilità è opportunamente stimolata nel corso del periodo formativo: l’inserimento degli strumentisti, prevede ad esempio che questi svolgano anche il servizio sala, poiché (come espresso da un neo-strumentista): “Fare servizio sala è comunque utile, perché impari dove si trovano i ferri, come si chiamano. Noi usciamo dalla scuola senza aver mai visto un ferro. È qui che impariamo tutto”.
Sono allora queste multiple competenze, questa conoscenza diffusa del lavoro, a permettere agli strumentisti non solo di lavorare d’anticipo, ma anche ad investire questi ultimi di un ruolo particolarmente delicato in tutte quelle situazioni in cui altri operatori siano assenti. Può infatti capitare (e nel corso delle osservazioni è accaduto abbastanza frequentemente) che uno degli operatori previsti non sia poi presente in sala. Le motivazioni possono essere le più disparate e, in parte, riflettono il carico e la complessità delle attività a cui gli operatori sono chiamati: un infermiere può essere occupato in terapia intensiva, un anestesista in rianimazione e un chirurgo può essere trattenuto in reparto. 
Talvolta (specie nel caso dei chirurghi), ciò può portare a rimandare o annullare l’intervento, ma più frequentemente la seduta ha comunque luogo:
 
Mentre tutta l’equipe è pronta per iniziare l’intervento (il paziente da operare è già stato anestetizzato e posizionato sul tavolo operatorio), l’anestesista Stella chiede al chirurgo Bianco se ha notizie del dottor Ponte, il secondo neurochirurgo atteso per la seduta. Il dottor Bianco risponde di no e raggiunge il telefono che si trova tra la sala operatoria e la presala. Passato qualche minuto, il dottor Bianco, dopo aver terminato la conversazione telefonica, torna in sala e dice che il dottor Ponte si trova ancora in reparto perché ci sono dei problemi con la prossima paziente da operare. 
Così, il dottor Bianco inizia l’intervento da solo, senza l’assistenza del secondo chirurgo, ma solo della strumentista che, anziché limitarsi a porgere gli strumenti necessari, assiste il chirurgo con l’elettrobisturi e tenendo il campo operatorio aperto.
 
A seguito di quest’ultimo estratto (e di tutti gli altri visti finora), dal punto di vista delle competenze, è dunque importante notare come nel lavorare quotidiano in S.O., gli operatori non solo affinino e si impadroniscano della pratica professionale, ma sviluppino una sorta di sapere ‘aggiuntivo’, difficilmente codificabile perché strettamente legato all’esperienza lavorativa quotidiana.
Se, tuttavia, nella maggior parte dei casi le diverse competenze e visioni professionali sono di reciproco supporto e si accompagnano vicendevolmente, nel caso del posizionamento del paziente queste divengono oggetto di esplicita discussione:
 
La strumentista chiede se la prossima paziente (che dovrà subire una mastectomia) deve essere posizionata seduta e il chirurgo risponde affermativamente. L'anestesista entra in sala e dice: “La facciamo sedere da sveglia, così vediamo come scivola e poi, se va bene, la facciamo stendere”. Tutti sono d'accordo.
 
Uno dei due chirurghi rasa i capelli della paziente, mentre l'altro posiziona il braccio sinistro della donna sotto il corpo della stessa. La donna però, pesa 118 chili, così dopo appena un paio di minuti, l'anestesista prova a posizionare il braccio in un altro modo, che risulti comodo tanto per la donna, quanto per i chirurghi.
 
Posizionato il paziente sul letto operatorio, la strumentista chiede all’anestesista: “Qual è l'orecchio da operare?”. L’anestesista risponde che è quello destro e la strumentista ribatte dicendo: “Allora il braccio sinistro va posizionato lungo il corpo, altrimenti la dottoressa sta troppo lontano”. L’anestesista, tuttavia, preferirebbe avere il braccio con la flebo distaccato dal corpo, in modo da poter controllare che l'ago sia in vena. Così, la flebo viene tolta e inserita nell'altro braccio. La strumentista conclude affermando: “Comunque è un compromesso, perché andrebbero tutt’e due le braccia lungo il corpo. A [nome di un altro ospedale della zona] fanno orecchie tutto il giorno e lavorano così… Anestesista, la invito a provare!” E poi...voi [riferendosi all’anestesista ed alla sua aiuto] state sedute tutto il giorno, sono io che sto sempre in piedi”.
 
Come mostrato dai diversi estratti, il posizionamento dei pazienti è il risultato di una serie di negoziazioni e compromessi. Questi possono essere più o meno espliciti, ma in ogni caso mostrano come le diverse visioni professionali concorrano nei processi di manipolazione e nel raggiungere un corretto posizionamento. La correttezza fa qui riferimento al fatto che il posizionamento di un paziente deve rispecchiare le esigenze dei diversi/e operatori, tenendo conto tanto del tipo di intervento, quanto della struttura del corpo del paziente e dell’esperienza situata (come dal riferimento della strumentista all’ospedale in cui “fanno orecchie tutto il giorno e lavorano così…”). In tal senso, non si può dire che il corpo dei pazienti sia sempre lo stesso corpo agli occhi dei diversi professionisti, così che diventa importante comprendere come nella pratica medica queste differenti ricostruzioni del corpo siano allineate e rese tra loro compatibili (Mol, 2002). 
Come mostrato sempre dai diversi estratti, solitamente l’approccio è di tipo collaborativo, ma può anche capitare (come nell’ultimo esempio presentato) che gli operatori discutano per stabilire chi ha maggiore competenza e/o legittimità nel decidere della posizione da far assumere al paziente. Per quanto in termini strettamente organizzativi il posizionamento dei pazienti sia responsabilità dell’anestesista, è qui esplicito come tutti gli attori presenti siano coinvolti da (e interessati a) tale processo, e come i criteri che orientano le decisioni debbano essere (almeno parzialmente) condivisi dall’intera equipe. Ciò fa sì che il posizionamento dei pazienti sia uno di quei processi che, nel loro essere contesi, attirano l’attenzione di tutti gli operatori presenti (cosa che ha evidenti risvolti positivi in termini di gestione del processo operatorio).
Ciò per sottolineare ancora una volta l’importanza che riveste l’esperienza pratica all’interno dei diversi processi che hanno luogo in sala operatoria, al punto da portare gli attori a dissentire in modo anche sostanziale circa il da farsi. 
La testimonianza più lampante di tale dinamica è stata offerta dall’osservazione dei primi giorni di lavoro di un nuovo anestesista:
 
Luca chiede a Anna: “Come funziona questo?” (indicando un macchinario), Anna risponde. Luca a quanto pare non apprezza né i macchinari, né il tipo di anestesia in uso a Trento: “Qui non si lidocaina neanche. È fuori legge…”, dice, ma Anna ribatte dicendo che non è vero. Luca, commenta: “Questo sembra un altro mondo…”.
Nel corso dell'intervento Luca fornisce a Anna le indicazioni circa i medicinali da iniettare alla paziente: “Fammi 42 cc di…” 
Anna: “42?!?”.
Luca: “Si, 42, perché la paziente pesa sessanta chili”. Tira fuori dalla tasca un taccuino sul quale ha annotato le formule e le tabelle per il dosaggio dei medicinali e lo mostra a Anna per darle la conferma che il dosaggio è corretto. Anna sembra perplessa, ma comunque segue le indicazioni.
Concluso l’intervento, la paziente viene estubata e, al momento del risveglio è Anna a tranquillizzarla accarezzandole il viso e dicendole che l'intervento è andato bene. Adesso la paziente può essere spostata sulla barella. La strumentista e Anna si trovano alla destra del letto operatorio, mentre Luca a sinistra. Nel tentativo di spostare la donna dal letto alla barella, tuttavia, Luca tira verso di sé (e dunque verso la barella) la paziente, prendendola per un braccio, ma subito Anna e la strumentista lo “fermano”: “No! Non così! Non si tira dal braccio, la rompe!”. Luca sorride imbarazzato.
[Anna ha un'espressione perplessa e durante la pausa caffé successiva commenta: “Chiedere di fare 42cc con una siringa da insulina non è normale. Io gli ho detto di sì, ma ne ho fatti 40, perché non puoi farne 42!”].
 
L’episodio permette di cogliere come, indipendentemente dal livello di expertise degli operatori, sia l’abitudine a lavorare in un certo modo (ad esempio, prestando attenzione a determinati parametri) a rendere particolarmente difficile l’incontro tra il nuovo anestesista e l’infermiera di anestesia. Ma l’episodio permette anche di notare come gli attori conservino (ed esercitino) sempre un margine di discrezionalità rispetto al da farsi. Nel caso appena visto, tale discrezionalità porta l’infermiera di anestesia a ‘disubbidire’ all’anestesista (somministrando al paziente una dose di 40cc, anziché di 42cc) ed a seguire con particolare attenzione le mosse del collega che, seppure con un status professionale più ‘alto’, risulta però avere un’esperienza professionale forse limitata (o comunque molto diversa) rispetto a quella dell’infermiera di anestesia.
Situazioni analoghe a quella appena presentata si sono verificate spesso nel corso delle osservazioni, specie in relazione a tutte quelle occasioni in cui vi fossero operatori che non avevano mai lavorato assieme, a sottolineare come l’expertise e la competenza non siano mai qualcosa di esclusivamente individuale, legato ad abilità soggettive, ma necessitino sempre di un riscontro, un riconoscimento da parte delle persone che prendono parte ad un determinato processo. 
E’ possibile, tuttavia, che vi siano asimmetrie, gerarchie e rivalità (inter e intraprofessionali) che affaticano i processi di coordinamento organizzativo e di cooperazione.
 
2.1. Autonomia, gerarchie e disarmonie professionali
Chirurghi ed anestesisti rappresentano le due figure professionali che, all’interno della sala operatoria, godono di maggior autonomia e di uno status di rilievo. In ottica etnografica, il perchè di tali privilegi rimanda tanto alla centralità che l’operato di tali figure riveste nel processo operatorio, quanto a forme di credenza culturale che nel mondo attuale portano a guardare ai medici in maniera non dissimile da come nelle società tradizionali si guardava a maghi e stregoni (Good, 1994), ma in ogni caso è doveroso notare come l’autonomia professionale di tali figure si traduca innanzitutto in un atteggiamento di superiorità nei confronti delle regole dell’organizzazione e dei protocolli aziendali sulla sicurezza:
 
Verso le 12, la Caposala ha l’abitudine di fare un giro per le diverse sale operatorie. Nel momento in cui entriamo in Cardio-chirurgia, l’anestesista esce dalla sala, senza mascherina, senza guanti e parlando al cellulare. Cerco di commentare il fatto con la Caposala, la quale prima reagisce nei termini di: “Bè, ma quello è l’anestesista…” [come dire che non è lui ad essere costantemente a diretto contatto con il paziente] e poi dicendo che “è già stato difficile insegnargli a non tenere lo stesso paio di guanti per tutta la giornata”.
 
Nell’episodio presentato, ciò che forse più colpisce non è neppure la non chalance con cui l’anestesista si relaziona a regole e linee guida sulla sicurezza organizzativa, ma l’impunità di cui egli gode. Ciò fa sì che diventi ‘normale’ per chirurghi e anestesisti adottare uno stile piuttosto disinvolto nei confronti delle prescrizioni in termini di sicurezza. Come dalla risposta data da un anestesista ad un chirurgo che gli faceva notare la sporcizia del camice e della mascherina: “Il giorno che dicono al Primario che in sala così non si può entrare, mi metto addirittura la cuffia!”. 
Bisogna poi tenere presente il fatto che un’equipe operatoria è formata per definizione da attori con diversi livelli di expertise: il primo e il secondo chirurgo hanno solitamente una diversa anzianità di lavoro, gli strumentisti possono avere maggiore o minore confidenza con le diverse tipologie di intervento, tra anestesista e infermiere di anestesia può esserci un’asimmetria non solo in termini di conoscenze esperte, ma anche di pratica professionale. Gli OSS, infine, contribuiscono all’intervento con un livello di coinvolgimento che varia inevitabilmente anche a seconda della loro conoscenza dei diversi processi clinici e di lavoro. Ciò per dire che è possibile che siano in azione allo stesso tempo gerarchie e rivalità che si sviluppano a livello inter e intraprofessionale, come ad esempio nei numerosi casi in cui vi è disaccordo tra chirurghi e strumentisti, oppure quando il primo chirurgo non è soddisfatto del lavoro del secondo. 
Dal punto di vista delle gerarchie, delle responsabilità e delle competenze, le distinzioni sono solitamente sufficientemente esplicite, ma vi è un certo grado di variabilità dato dalle relazioni tra gli attori organizzativi coinvolti (nonché dagli stili relazionali di questi ultimi). La composizione delle equipe è solitamente casuale, ma la questione rappresenta un interrogativo da un punto di vista organizzativo: è preferibile organizzare delle equipe ‘stabili’ (dove quindi le persone hanno modo di conoscersi e ‘crescere’ insieme) o fare in modo che vi sia una costante turnazione tra colleghi e operatori? Gli attori stessi non hanno una chiara idea in proposito, ma hanno comunque fornito tutti lo stesso tipo di opinione: lavorare sempre con le medesime persone aumenterebbe probabilmente i risultati in termini di esecuzione delle prestazioni, ma esporrebbe anche al rischio della ‘cronicizzazione’ di alcuni rapporti e relazioni (oltre a porre dei problemi non trascurabili dal punto di vista organizzativo: come si fa se un operatore è assente?). 
Sino a questo momento, la via intrapresa dalla Caposala è stata di incoraggiare e supportare la formazione di gruppi in qualche modo coesi al loro interno, anche se ciò ha portato alle volte al formarsi di vere e proprie ‘fazioni’. Nel corso di una conversazione informale, la Caposala ha raccontato di operatori che tra loro non si sopportano (“e questo, con 70 infermieri, è anche normale…”), il problema è che però iniziano a verificarsi dei ‘dispetti’. Pare ci siano operatori che controllano chi è di turno il giorno successivo prima di preparare la sala e che la preparazione avvenga di conseguenza, a seconda della ‘simpatia’ che li lega all’equipe. Altri, nel corso delle riunioni, dichiarano apertamente di (ad esempio) nascondere i ferri e/o di non preparare opportunamente la sala quando vi operano alcuni colleghi. La Caposala (che ha già avuto altre esperienze in tre differenti reparti) ha sottolineato come sia la prima volta che si trova a gestire un gruppo con livelli di conflitto così alti, e come lei stessa sia preoccupata dalla situazione, per quanto non abbia ancora trovato la soluzione.
Gerarchie e rivalità professionali si riversano più che altro nelle dinamiche comunicative e relazionali, come nel caso a seguire:
 
[la ricercatrice entra in sala]
Il chirurgo grida all'anestesista: “Dottoressa, [il paziente] si muove!”.
L’anestesista si alza dallo sgabello, prende una siringa con un farmaco e lo somministra alla paziente. Poi aggiunge: “Comunque lei a me non me ne frega un c***o non me lo dice!”.
C: “Sta scherzando?!?”.
A: “No! Lei poco fa mi ha risposto dicendo così”.
Il chirurgo per un attimo rimane immobile, smette di operare, ma poi, notando l'allontanamento dell'anestesista dalla sala, inizia a gridare: “Sta sanguinando! Sta sanguinando! Anestesista! Dov'è l'anestesista? Non la vedo!”.
L'anestesista, davanti la porta della sala, risponde: “Qui!”.
C: “Deve stare qui, dietro alla paziente! E non mi risponda! Ora non potrete nemmeno andare a pisciare senza il mio permesso!”.
L’anestesista non dice nulla, nessuno dice nulla. In sala è calato il gelo. L'intervento adesso è ad un punto critico: il chirurgo inserisce un sacchetto in uno dei tre fori praticati nell'addome, trasferisce (con l’ausilio di alcuni ferri) il tumore asportato nel sacchetto, lo chiude (con delle ‘grafette’) e quindi (con delle pinze) ne fa fuoriuscire un'estremità dal foro dal quale lo aveva inserito. Poi, con le mani, tira il sacchetto. La parte asportata ha però un diametro maggiore di quello del foro praticato, così il chirurgo deve tirare con forza per riuscire ad estrarlo. Quando, dopo alcuni tentativi, ci riesce, il chirurgo si punge con una delle ‘graffette’.
C: “Porca p*****a!
Strumentista: “Si tolga i guanti almeno ...”.
Il chirurgo toglie i guanti e ne mette un paio puliti, poi continua dicendo: “Si muove! Vogliamo fare qualcosa?”.
L'anestesista, senza dire nulla, somministra altri farmaci. Dopo la discussione tra i due, neanche l'infermiera si è allontanata dalla sala, ma è rimasta seduta vicino al ventilatore, in silenzio, per tutto il tempo.
C: “Adesso mettiamo su un'urgenza dottoressa, sa? Per lei va bene?”.
Sono le 13.20 e l'intervento deve ancora essere ultimato. Solitamente, a quest'ora si interrompe la seduta e si aspetta l'equipe del pomeriggio per gli interventi di emergenza, ma il chirurgo insiste affinché l'anestesista continui a lavorare ancora per un paio d'ore.
Alle 13.40 il primo e il secondo chirurgo “chiudono” il campo operatorio e vanno via senza dire nulla.
 
La ricercatrice non era presente in sala nel momento in cui l’anestesista sostiene che il chirurgo abbia pronunciato la fatidica frase, dunque non è dato sapere cosa sia successo esattamente negli istanti precedenti all’interazione riportata. Proprio per questo, tuttavia, l’episodio risulta interessante, tanto dal punto di vista organizzativo, quanto etnografico: come interpretare un evento, quando non se ne possono verificare i presupposti? 
Anselm Strauss era solito affermare che l’interpretazione delle interazioni sociali non dovrebbe guardare alle cause dell’interazione, ma concentrarsi sulle conseguenze. In tal senso, indipendentemente dalla causa scatenante, la situazione diviene allora indicativa del clima di stress che si respira talvolta in sala operatoria, di come l’innervosirsi di singoli operatori (nel caso specifico, il chirurgo) possa tradursi in pratiche poco sicure sia nei confronti del paziente, quanto degli operatori stessi, nonché di come in sala operatoria sembri assente una modalità di gestione dei conflitti alternativa a quella dell’esercizio (gratuito) dell’autorità e della gerarchia. 
Una certa dose di conflitto, peraltro, è connaturata a qualsiasi gruppo e organizzazione, così come l’identità professionale (ma non solo) si costruisce anche per opposizione ad altre identità e professioni. Con questo non si vuole giustificare lo sfoggio di status professionale che alcuni chirurghi e anestesisti hanno talvolta avuto nel corso delle osservazioni, ma sottolineare l’ordinarietà di alcuni conflitti e contrasti, professionali, o personali che siano. 
In conclusione, si ha qui modo di vedere come gli attori organizzativi costruiscano la propria professionalità anche attorno a forme particolari di esercizio del potere nei confronti dei colleghi, di altri operatori e/o nell’atteggiamento verso le regole organizzative. Ma nelle organizzazioni, il potere è un esercizio inconcluso e mai del tutto lineare, che apre le porte tanto all’autorità, quanto alla resistenza (Clegg, 2009). Le implicazioni in termini di processi di lavoro quotidiano sono abbastanza chiare: questi possono essere imposti attraverso le vie dell’autorità, ma ciò provocherà l’emergere di profonde resistenze. 
 
 
3. Aperture: l’etnografia come occasione di formazione ‘invisibile’
I primi destinatari di un’etnografia organizzativa sono gli attori coinvolti. Questa massima etnografica, nel caso della presente ricerca, si è rivelata particolarmente pressante. 
Non è qui possibile ricostruire in dettaglio l’intero processo di ricerca (per questo, si veda Bruni, 2010), ma sin dall’inizio questo prevedeva la conduzione di alcuni focus group, quale stimolo al confronto e all’apprendimento inter e intra professionale.
Concluso il lavoro sul campo, si è quindi deciso di utilizzare alcuni episodi esemplari, tratti da situazioni collezionate nel corso dell’etnografia e rappresentative del lavoro quotidiano e del clima organizzativo che si respira in sala operatoria. Per facilitare la discussione, il ruolo del conduttore è stato svolto dal ricercatore che ha preso attivamente parte alle osservazioni, coadiuvato da una ricercatrice, nel ruolo di osservatrice delle interazioni.
I focus group (a carattere interprofessionale e la cui composizione ricalcava quella di una equipe operatoria) hanno così permesso di approfondire ulteriormente la gamma di significati che i diversi operatori attribuiscono alle pratiche di lavoro quotidiano, di ‘testare’ alcune delle interpretazioni fornite a proposito dei processi osservati, ma soprattutto di offrire agli attori un momento ‘separato’ dal lavoro quotidiano per riflettere e confrontarsi circa le reciproche expertise, competenze e costruzioni di significato.
Allo stesso tempo, per me che avevo condotto la ricerca ed ero stato ‘sul campo’, era piuttosto evidente come i focus group rappresentassero delle situazioni comunque edulcorate, all’interno delle quali si riversava già un apprendimento di carattere più riflessivo e sotterraneo, legato all’aver aperto il lavoro quotidiano allo sguardo e alla presenza di due ‘estranei’ ed alle tante conversazioni e scambi di opinione informali che per otto settimane consecutive lo avevano accompagnato.
Se, come recita un’altra massima etnografica, è vero che: “l’etnografo sa più di quanto scrive” (a significare l’immersività dell’esperienza di ricerca etnografica e della conoscenza che essa produce), forse sarebbe il caso di iniziare a chiedersi anche se, nel corso di un’etnografia organizzativa, gli attori stessi non apprendano più di quello che, a posteriori, sono capaci di riconoscere quale apprendimento.
 
Note
1   Il lavoro sul campo ha visto la presenza di chi scrive e di Giusi Orabona, che ringrazio per il lavoro condotto e la condivisione delle osservazioni.
 
Riferimenti bibliografici
Bruni, A. (2003), Lo studio etnografico delle organizzazioni, Carocci, Roma
Bruni, A. (2010), La sicurezza organizzativa. Un’etnografia in sala operatoria, Roma, Carocci
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