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"In principio era la gamification…"
No, decisamente non potremo iniziare così un ragionamento sulla gamification. Perché in principio c'era la scuola. E quando andavamo a scuola tutti ricordavano in continuazione che lo "studio è sacrificio". A pensarci bene, col senno del poi, era un'idea ben strana: perché mai dovrebbe essere "un sacrificio" scoprire il mondo e capire come funziona?
Per fortuna, da un po' di tempo, in ambiti a prima vista molto lontani tra loro, come la scuola d'infanzia e la formazione aziendale, ecco riscoprire il gioco. E tutti a ripetere "gamification, gamification" con l'entusiasmo di chi ha scoperto la pietra filosofale dell'apprendimento. Quella che trasforma magicamente il sacrificio in motivazione (l'eterna assente nei percorsi formativi che tutti conosciamo).
È il momento giusto per chiederci, seriamente: "Cos'è questa gamification?". E, soprattutto, "Perché la gamification?"
Nel settore che ci interessa, quello delle tecnologie per l'apprendimento, c'è da sempre un andirivieni di parole chiave. Lasciando perdere quelle che non si discostano dal paradigma istruzionista (come "FAD" o "learning object"), prima c'erano le "simulazioni" e ora è il momento dei "serious games". Così, si parla di "gamification" in ambiti diversi, con riferimento a questi "giochi seri", ai tornei aziendali (basta che abbiano punteggi e classifiche) e alle forme di gioco inserite nelle diverse attività formative o di semplice "team building" (altro termine di gran moda).
Allora è il caso di delimitare il campo inserendo due linee di confine. Perché la gamification che ci interessa:
Ma ha senso il gioco come strumento per apprendere?
Domanda retorica, perché la risposta è inequivocabilmente "sì". Gioca il bambino di pochi mesi che mette i cubi uno sull'altro. Gioca il bambino di sei anni che crea mondi fantastici con bambole, robot e mattoncini Lego. E gioca anche l'adulto davanti a un serious game.
Solo che il bambino di pochi mesi cerca di assumere il controllo - molto parziale - del mondo reale (detto in altri termini, se potesse parlare direbbe che non sta affatto giocando: "Lasciatemi stare che ho da lavorare"): Al contrario, quello più grande vive in un mondo di fantasia (quindi virtuale) del quale assume un controllo totale. Se decide che la bambola dorme, quella dorme e basta!
E il serious game? È una interessante via di mezzo, resa possibile dalla tecnologia, perché il mondo è virtuale, ma il controllo è parziale. È un mondo con le sue regole che fa di testa sua. E che è stato progettato proprio per apprendere a "dominarlo". O almeno a non farsi travolgere troppo.
Questo numero è basato prevalentemente su esperienze concrete. Sono, però, esperienze basate su rigorosi modelli dell'apprendimento e del funzionamento mentale. Perché la gamification è un settore che attira i professionisti migliori, ma anche il mondo dell'università e della ricerca.
Chi lo sapeva che proprio alla Sapienza (la prima università dio Roma) c'è un GamificationLab?
Dato il mio ruolo di docente universitario e di professionista che opera da anni nel campo della gamification, del game design e delle simulazioni digitali, mi viene spesso chiesto di spiegare cosa sia la gamification. Coloro che mi pongono la domanda vorrebbero ricevere una risposta sintetica, una definizione immediatamente comprensibile e soprattutto utilizzabile per finalità concrete.
Il problema è che la gamification, come il gioco del resto, è un concetto complesso che sfugge a semplici definizioni se non banalizzando i concetti.
Per questa ragione, molto spesso mi concentro nello spiegare cosa non sia gamification, ovvero mi sforzo di operare per differenza ricadendo però nello stesso errore che fanno un po' tutti quando cercano di spiegare cosa sia il gioco. Definire il gioco è molto difficile e, come ci fa osservare lo stesso Bateson, spesso si tende a farlo per negazione: il gioco non è serio, non è reale, non produce un valore tangibile, etc. Questo ci aiuta a comprendere cosa "non sia gioco" ma certo non ci permette di capire in profondità cosa esso sia realmente.
Un ulteriore problema della gamification è la grande disinformazione nata da quando questa disciplina è diventata di moda. Molti cercano di presentarsi come esperti e lo fanno usando definizioni lette in rete, copiate da un libro o ascoltate in un webinar. Queste definizioni sono tutte molto simili tra loro e quasi nessuno si preoccupa di scavare in profondità per verificarne la validità e soprattutto per comprendere il reale significato delle parole usate nella definizione stessa.
Potremmo dire che la gamification è l’impiego di meccaniche e dinamiche di gioco per finalità serie. Ma cosa è una meccanica di gioco? Cosa è una dinamica? Qui il finto esperto viene a galla. Se fate una ricerca potrete trovare definizioni fantasiose e, a volte, ridicole. Troverete che le meccaniche di gioco sono costituite da elementi quali i sistemi di punteggio, i badge, i mondi virtuali, gli avatar. Questi elementi non hanno nulla a che fare con le meccaniche ludiche. Punti e badge sono elementi esogeni che, come tali, possono solo corredare un gioco e non sono sempre presenti. Se giocate a scacchi non ci sono punteggi e tantomeno badge o avatar. Però questi, essendo elementi molto visibili, traggono in errore l’osservatore occasionale e poco preparato. E’ un po' come dire che un’automobile è un sistema dotato di targa, ruote e fari. Così facendo, se dovessimo aggiungere una targa e dei fari ad un carrello del supermercato (che solitamente è già dotato di ruote) potremmo forse dire di aver realizzato un’automobile?
D’altra parte, nessuno gioca per ottenere dei punti o un badge. Chi affronta il boss di fine livello di un platform lo fa per utilizzare le proprie capacità e dimostrare la propria abilità.
Tornando alle definizioni possiamo dire che la gamification è un termine ombrello che riunisce sistemi che già esistevano molto prima che fosse coniato questo neologismo. Tanto per fare qualche esempio si pensi che Sun Tzu, famoso generale e filosofo, impiegò un gioco (probabilmente l’antenato del GO) per addestrare i propri generali. In modo analogo, quello che viene comunemente indicato come il primo videogioco, Tennis For Two, fu sviluppato su un oscilloscopio dal fisico William A. Higinbotham del Brookhaven National Laboratories di New York per coinvolgere i giovani visitatori su tematiche scientifiche.
Quando scoprii per la prima volta questo termine, che descrive una disciplina utilizzata già nell’antichità, feci una ricerca partendo dall’analisi etimologica. Gamification è una parola formata dal termine game e dal suffisso di ATION. "Ation" definisce un processo o meglio il risultato o l’esito di un processo. Si tratta quindi di trasformare qualcosa che non ha gli elementi di gioco in qualcosa che, incorporando tali elementi, riesce a portare con sé i vantaggi propri del gioco. Vantaggi quali il coinvolgimento emotivo (engagement), l’assenza di percezione di fatica, l’assenza o la riduzione di ansia e stress, la forte concentrazione sull’obiettivo, la comprensione della complessità tramite il modello che sottende ad ogni gioco o simulazione. Questo, tanto per citarne alcuni.
Ma quali sono gli elementi propri di un gioco? L’analisi etimologica, infatti, ci dice che il cuore della gamification è, come facilmente immaginabile, il gioco stesso.
Occorre quindi partire da qui. Ma esistono modelli teorici di riferimento per progettare un sistema gamificato efficace? Molti autori propongono modelli basati sul design pattern (Walter Nuccio è uno di questi) e su procedure di "mapping" e il loro sforzo è lodevole. Sinceramente però non credo in questo approccio e in processi standardizzabili non avendone mai incontrato uno realmente utile né nel campo del gioco né in quello della progettazione dei modelli simulativi (e qui esistono studi ben più accurati).
Il gioco è un fenomeno molto complesso che può essere analizzato ad un primo livello facendo ricorso alla lingua inglese che, in questo contesto, è più precisa della nostra. In tal senso va distinto l’atto (play) dallo strumento (game). Se non comprendiamo a fondo l’atto del giocare (play), le sue motivazioni e dinamiche difficilmente potremo progettare un "game" che risulti attrattivo e funzionale per obiettivi specifici (che poi è lo scopo della gamification). Ricordiamoci infatti che un gioco non è prescrivibile, non possiamo obbligare qualcuno a giocare come non possiamo obbligare qualcuno ad amare. Si tratta di un atto sempre volontario.
Purtroppo, non esiste una disciplina ufficiale che studi i giochi e il gioco con un approccio specifico. Non esiste una "Ludologia" sebbene una tale branca di studi risulterebbe utilissima. D’altra parte, i modelli concettuali di riferimento sono molti. Numerose discipline hanno affrontato il tema del gioco: filosofia, sociologia, etologia, antropologia, etnologia, storia, psicologia, matematica, statistica, game design, etc. Tra i principali lavori che possono essere presi in considerazione si segnalano quelli di studiosi del calibro di Bateson, Huyzinga, Caillois, Derrida, Spencer, Carr, Groos, Piaget, Vygotskji, Freud, Winnicott, Callari Galli, Morris, Trabona, etc. (a cui si aggiungono famosi game designer da Chris Crawford in poi). Il gioco e la gamification sono quindi discipline fortemente interdisciplinari che richiedono studi, ricerche e approcci specifici per dare risultati.
Tornando alla gamification è importante sottolineare come questa possa essere applicata efficacemente sia in ambito aziendale (per formazione, addestramento, assessment delle risorse umane e per la governance di processi complessi dalla comunicazione al marketing fino a quelli produttivi) sia per scopi di utilità sociale come la sensibilizzazione civica e l’istruzione.
La gamification studia, in sintesi, come influenzare il comportamento e la percezione delle persone. Il suo scopo è quello di stimolare un coinvolgimento pieno e volontario di un utente e una forte attenzione ad un obiettivo o risultato.
Questo determina vantaggi in termini di apprendimento, comprensione della complessità, approccio positivo verso uno messaggio, brand, contenuto, etc.
La gamification parte dal presupposto che l’essere umano non attua comportamenti razionali ma è invece un "essere grammaticale" fortemente dipendente dal contesto in cui l’informazione viene elaborata. L’applicazione corretta dei principi della gamification determina un sensibile cambiamento del contesto percepito che modifica in positivo le relazioni tra utente e sistema.
In questo contesto si inquadrano gli studi e le attività didattiche del GamificationLab della Sapienza. Sul piano didattico si tratta di una attività formativa complementare per gli studenti della magistrale di informatica e di un corso, Gamification & Game Design, per gli studenti della triennale. Questi due corsi, più quello a distanza che tengo per Unitelma Sapienza, forniscono le basi sul piano teorico e tecnico/pratico per le figure professionali destinate ad operare nel campo della progettazione/design di giochi, videogiochi, simulazioni digitali e applicazioni di gamification sia in ambito aziendale che per finalità sociali e culturali.
Il corso include i fondamenti delle metodologie e degli strumenti impiegati per il game e gamification design e per la progettazione dei modelli che sottendono a videogiochi e alle simulazioni digitali.
Ogni anno gli studenti, dopo la prima parte teorica, vengono coinvolti in una simulazione nel corso della quale aziende o istituzioni presentano un brief affinché gli studenti progettino una soluzione reale di gamification; gli studenti realizzano anche un prototipo software necessario a testare la soluzione e in particolare la meccanica ludica, da loro stessi progettata.
Chi fosse interessato può trovare i progetti realizzati negli anni precedenti sul sito del laboratorio.
Tra i progetti più interessanti dell’ultimo anno accademico segnalo il progetto realizzato per la Consigliera di Parità della Regione Lazio il cui scopo è sensibilizzare i bambini delle elementari sul mancato equilibrio nel rapporto tra uomo e donna. Il gioco realizzato aiuta i giovanissimi a riflettere sul tema favorendo un cambio di atteggiamento senza forzature e raccogliendo, al contempo, dati sul modo in cui i minori vivono il tema della parità di genere.
Un secondo progetto è stato realizzato per Casa Ronald Mc Donald che opera a supporto dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù. La casa ospita molti bambini e ragazzi di diverse culture e nazionalità. Lo scopo del gioco realizzato dagli studenti è quello di favorire la socializzazione superando le barriere linguistiche e culturali. In questo contesto è stato realizzato un gioco assolutamente innovativo che è stato installato e testato con successo direttamente presso la casa Ronald di Palidoro (Roma).
Per concludere ci tengo a segnalare che nel campo della gamification e delle simulazioni la frontiera più nuova ed interessante è quella che applica tali tecniche al governo dei processi aziendali. Studi in tal senso sono stati effettuati sia noi del GamificationLab Sapienza sia da altre università europee tra cui quella di Monaco.
Fin ora abbiamo applicato con successo tali metodi ai processi in ambito industriale e nel campo delle costruzioni (grandi opere). È possibile trovare un esempio qui.
Attualmente sto lavorando con la società Sicheo ad un progetto che impiega gli stessi metodi nel settore farmaceutico. In questo caso algoritmi di Intelligenza Artificiale e metodi di Machine Learning sono applicati per l’analisi forward e backward dei processi di produzione farmaceutica mentre interfacce uomo-macchina di nuova generazione, basate su tecniche di simulazione e gamification, coadiuvano l’operatore per aumentare l’efficienza delle operazioni. La soluzione è impiegabile per simulare scenari critici oltre che per la formazione, l’addestramento e l’assessment del personale coinvolto nei processi produttivi.
Immergersi nel regno di Atlantide e tramite la formazione imparare a vivere sott’acqua – trasformati in sirene e tritoni - per scoprire i tesori che si nascondono sul fondo dell’oceano: il meccanismo di gioco premia self e social learning attribuendo Punti e Bonus in maniera mirata e differenziale.
Competere fra squadre in una entusiasmante Color Run di 42 km per il raggiungimento degli obiettivi commerciali definiti, dove si misurano di mese in mese le performance effettive dei dipendenti di una banca nella vendita di prodotti assicurativi: le regole del gioco vedono la formazione come boost abilitante per poter partecipare alla gara.
Aiutare un cliente a raggiungere la filiale per trovare nella sua banca la giusta risposta al contrasto del fenomeno dell’usura, svolgendo nei tempi corretti la formazione propedeutica e misurandosi per ottenere i risultati il più velocemente possibile brillanti risultati nei test di valutazione.
Per non parlare dei giochi di parole spesso utilizzati per l’autoverifica dell’apprendimento: quiz a tempo, rebus e cruciverba offrono dei richiami espliciti a noti giochi televisivi o a classici passatempi da Settimana Enigmistica con l’obiettivo di creare una contaminazione del mondo lavorativo con quello extra-lavorativo del tempo libero e del relax.
In tante proposte formative, e soprattutto in quelle formulate in chiave digitale, Gamification e Gaming sono ormai richiesti e presenti spesso: ma con quali reali finalità?
Sicuramente c’è l’esigenza di rendere questa attività il più leggera possibile per i partecipanti e la velata ambizione che possano trovarla perfino divertente. Perché chi opera nel Digital Learning in ambito Corporate sa bene che l’apprendimento on line, soprattutto se in modalità "self", è ritenuto poco motivante per le persone e - purtroppo non di rado - anche poco utile. Si presume allora che l’utilizzo di una qualsiasi azione o dinamica che richiami il mondo ludico sia funzionale ad un maggior gradimento dell’iniziativa formativa e, di conseguenza, ad una maggiore e migliore partecipazione alle varie attività con potenziali impatti positivi anche in termini di apprendimento.
Peccato che a volte, trascinati dall’entusiasmo, trascuriamo di valutare nella maniera opportuna se l’intervento che stiamo progettando è il risultato di un’esigenza "nata dal basso" o se è il risultato di una formazione "imposta" e "uguale per tutti": che non sono proprio i presupposti migliori per interventi realmente efficaci in termini di apprendimento…
I motivi per cui oggi le aziende, in almeno il 60% dei casi, coinvolgono i loro dipendenti in iniziative formative on line sono principalmente due:
1. le normative internazionali e nazionali, che definiscono le conoscenze/competenze fondamentali per l’esercizio di una determinata attività e, di conseguenza, anche la maggior parte dei contenuti dell’offerta formativa aziendale per l’aggiornamento professionale;
2. i nuovi modelli di business, che determinano innovazione continua nei processi aziendali e di conseguenza continui cambiamenti nelle procedure operative su cui formarsi (e "conformarsi").
In questo scenario – è dura ammetterlo - introdurre richiami più o meno spinti al Gaming o alla Gamification non garantisce il successo dell’intervento. Anche quando utilizziamo modalità che ipotizziamo essere nuove e divertenti non stiamo proponendo alcun contratto formativo ai partecipanti: l’assenza di questo importantissimo momento è – da sempre – il limite più alto che inficia nel nostro settore ogni tipo di ragionamento sui principi di base della motivazione.
Accogliere in maniera semplice l’esigenza di rendere la formazione "leggera e divertente" può inoltre farci perdere di vista l’obiettivo principale: che è quello di proporre una formazione che sia percepita come "utile". Per riuscire a convincere le persone a dedicare consapevolmente parte del proprio tempo lavorativo – e quindi della propria vita – all’apprendimento di nuove conoscenze e/o di nuove modalità di svolgimento delle proprie attività lavorative quotidiane, c’è bisogno prima di tutto di farne apprezzare l’utilità.
Un mio collega tempo fa, mentre stava progettando un algoritmo per la gestione di un Game, ha proposto una interessante riflessione:
"Ciò che può stimolare un partecipante potrebbe non essere il divertimento, o almeno non solo.
Perché lo studio non è divertimento, non lo è mai stato.
La serietà è l’aspetto a cui non avevo dato la giusta importanza."
Se è vero che si può imparare meglio (anche) divertendosi, non va mai dimenticato che lo studio è una cosa "seria" e che anche il gioco lo è: da bambini e ancor più da adulti, giochiamo quando e se decidiamo di farlo e, soprattutto, quando possiamo scegliere il gioco che ci piace, incuriosisce o appassiona di più.
Johan Huizinga , storico olandese fra i primi a dedicare i suoi studi di inizio secolo scorso alla ricerca di una vera e propria filosofia del gioco, nel suo trattato Homo Ludens afferma: "Se consideriamo più da presso la coppia di concetti "gioco" e "serietà", ci risulta che i due termini non sono equivalenti. "Gioco" è il termine positivo, "serietà" il termine negativo. Il contenuto semantico di "serietà" è definito ed esaurito con la negazione del gioco; "serietà" è non-gioco e nient’altro. Il contenuto semantico di "gioco" invece non è affatto circoscritto né esaurito dalla non-serietà. "Gioco" è una cosa a sé. Il concetto "gioco" come tale è di un ordine superiore a quello di "serietà", perché "la serietà" cerca di escludere il gioco, ma il "gioco" può includere benissimo la serietà."
L’antitesi gioco-serietà è quindi un’antitesi meno stabile di quel che solitamente pensiamo. Citando ancora Huizinga: "il gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiunge", con riferimento al senso della filosofia ludica del "sacro" giocare.
Il gioco quindi, per alcuni versi, non può che essere serio o non è.
Imporre un gioco significa negarne uno dei principi fondamentali: l’azione libera e volontaria del giocare che fa del gioco stesso un vero motore per la crescita e per l’apprendimento. Anche se può sembrarci un termine forte se ci riferiamo alle nostre soluzioni formative che includono la Gamification, è davvero di "imposizione" che parliamo nel momento in cui dimentichiamo di fare un patto con i partecipanti chiedendo loro "se vogliono giocare".
Nella maggior parte dei casi non gli facciamo una proposta: abbiamo già confezionato – armati delle nostre migliori intenzioni - un contenuto formativo all’interno di una "scatola di gioco" e gli stiamo chiedendo non solo di apprendere un determinato contenuto ma di farlo con le modalità e le regole che abbiamo deciso e disegnato, nei tempi e nel contesto fisico della loro vita lavorativa.
Huizinga definisce il gioco: "…un’azione, o una occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa, accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di "essere diversi" dalla vita ordinaria".
Solo quando ci sono i presupposti contenuti nella definizione dei Huizinga, soprattutto da adulti, il gioco piò diventare una risorsa preziosa per il nostro benessere: ci consente di essere "diversi" da come siamo nella vita ordinaria, crea uno stacco che ci fa immergere in una dimensione spaziale e temporale alternativa a quella reale, in cui provare emozioni forti ed entusiasmanti tramite le quali entrare in contatto profondo con stimoli che ci fanno acquisire nuove conoscenze sul mondo e su noi stessi. Consentendoci di sperimentare e di crescere.
Roger Caillois nella sua opera I Giochi e gli Uomini: la maschera e la vertigine dettaglia ulteriormente le caratteristiche identificate da Huizinga definendo il gioco come un’attività:
1) libera, a cui il giocatore non può essere obbligato senza che il gioco perda subito la sua natura di divertimento attraente e gioioso;
2) separata, circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo;
3) incerta, il cui svolgimento non può essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente, una certa libertà nella necessità d’inventare essendo obbligatoriamente lasciata all’iniziativa del singolo giocatore;
4) improduttiva, che non crea cioè, né beni né ricchezza, né alcun altro elemento nuovo; e, salvo uno spostamento di proprietà all’interno della cerchia dei giocatori, tale da riportare ad una situazione identica a quella dell’inizio della partita;
5) regolata, sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la sola a contare;
6) fittizia, accompagnata dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale.
Al termine serio Caillois aggiunge quello di rigoroso: "Gioco significa, dunque, la libertà all’interno del rigore stesso, affinché questo acquisisca o conservi la sua efficacia."
Qual è allora oggi il senso dell’applicazione di giochi nel settore della formazione on line?
Dagli studi filosofici, antropologici e sociologici sul gioco di inizio secolo scorso agli attuali trend della formazione, in cui Gaming e Gamification sono le keyword più utilizzate, il passo non è mai stato più lungo.
Se sicuramente siamo consapevoli che non basta inserire dinamiche ludiche nei nostri interventi formativi per raggiungere maggiori risultati in termini di apprendimento, non va assolutamente dato per scontato neanche un miglioramento del livello di gradimento (se non il nostro nel progettare interventi formativi sicuramente più complessi e articolati dello standard).
Perché non tutti i giochi attraggono in egual misura: molti annoiano, distolgono l’attenzione e alcuni addirittura infastidiscono profondamente. Soprattutto persone adulte che, obbligate a partecipare ad una formazione lavorativa i cui contenuti a volte non destano motivo di interesse, si ritrovano costretti "anche a giocare". Senza provare il benché minimo divertimento.
Una leva che abbiamo a disposizione, come formatori, è sicuramente quella di codificare e valorizzare nella maniera opportuna un momento importantissimo: il momento in cui si formula la proposta di gioco, il momento in cui i partecipanti possono fare la conoscenza (fisica o virtuale non importa) degli altri giocatori e dell’arbitro, il momento in cui acquisiscono e accettano le regole della competizione. È solo curando particolarmente quel momento lì che possiamo sperare di favorire la creazione di una qualche "volontà di giocare" nei nostri partecipanti.
Se "giocare è sempre stata una attività dannatamente seria", anche nella formazione, forse dobbiamo semplicemente ricordarci che ogni gioco ha sempre il suo kick off.
Sono passati dieci anni tondi tondi da quando ho proposto al Cattid un sistema per realizzare simulazioni (ancora non si usava il termine “serious game"): i Learning Brick. Non un editor, ma qualcosa di diverso che possiamo chiamare “sistema", “framework" o “architettura".
Si tratta di:
Quando si costruisce un serious game, un metodo efficace è quello che parte dagli obiettivi formativi, lasciando in secondo piano gli aspetti tecnici, per poi porsi alcune domande:
Dopo di che al progettista piace (o piacerebbe) dare per scontato che tecnicamente si può fare qualunque cosa. Sì, ma come?
Programmare tutto ex novo è fuori discussione, perché i costi e i tempi sarebbero proibitivi. E poi, scoprire ogni volta l’acqua calda non è una buona idea.
A questo tipo di esigenze, il mondo dell’e-learning ha risposto proponendo quasi solo “sistemi autore" sempre più raffinati ed efficaci, fino a Storyline che oggi è uno standard di fatto nel settore.
Ma efficaci per fare cosa? É questo il punto. Perché tutti i sistemi autore commerciali servono per produrre al meglio dei libri multimediali da “sfogliare" cliccando “avanti" e “indietro". Sono, in fondo, versioni raffinate di PowerPoint.
Ma le simulazioni sono un’altra cosa: non sono, o non sono sempre, narrazioni lineari. E nemmeno strutture ad albero, né ipertesti. Sono “mondi", sono storie interattive, sono sistemi complessi guidati da regole. Regole che di solito fanno parte degli obiettivi di apprendimento. Detto in un altro modo: il fruitore deve imparare dall’esperienza a muoversi in quel mondo, per fare in modo di raggiungere i suoi obiettivi.
Tutto questo non si può realizzare, se non al prezzo di compromessi inaccettabili, con un sistema autore che “ragiona" per pagine e implementa la metafora di una narrazione lineare.
In realtà, qualcosa di diverso è stato realizzato in alcuni progetti di ricerca. Sono editor, abbastanza facili da usare, che però consentono simulazioni sempre dello stesso tipo.
I Learning Brick seguono una filosofia radicalmente diversa, che si può descrivere con una nuova metafora: la creazione di mondo virtuale effettuata da un “architetto" che costruisce, con una sorta di Lego digitale, gli spazi e le regole per abitarli.
Spazi e regole che sono l’essenza di un serious game.
In un serious game, gli spazi sono immediatamente percepibili: ambienti grafici, che riproducono un luogo di vita o di lavoro (dagli uffici direzionali alla cabina di pilotaggio di un’astronave), popolati da un numero virtualmente illimitato di personaggi e altri oggetti interattivi.
Le regole definiscono:
Tecnicamente, queste regole sono costruite attraverso due componenti:
La principale caratteristica progettuale dell’architettura Learning Brick è che ogni oggetto che popola lo spazio è “agganciato" a una sola variabile. Modificando il valore di questa variabile cambiano lo stato dell’oggetto (per esempio, compare o scompare) e/o il suo comportamento (per esempio, se si tratta di un personaggio, parla).
In questo modo, un oggetto non dipende direttamente da nessun altro e questo consente di ridurre la complessità. Significa che è possibile aggiungere o togliere oggetti in modo relativamente “indolore".
In concreto, un oggetto della simulazione è costituito da:
Esistono al momento una dozzina di brick differenti: Personaggio, Documento con informazioni e/o test, Immagine, Calendario, Orologio, Cruciverba, ecc. In più un modulo base gestisce automaticamente il tracciamento Scorm, i pulsanti per fermare e riprendere la simulazione, uscire, ricominciare da capo, ecc. più diverse funzioni di servizio.
I Learning Brick, a differenza dei sistemi autore, non consentono di sedersi davanti a un editor che fa tutto.
Possiamo considerarli, piuttosto, gli attrezzi di un banco di lavoro in cui il progettista è chiamato a un lavoro artigianale, quasi un bricolage. È un lavoro di montaggio che utilizza ampiamente parti “prefabbricate", ma lascia la più ampia libertà creativa.
La prima fase del lavoro è puramente progettuale e consiste nella stesura di uno storyboard, un documento che contiene:
una descrizione sintetica dello scenario e degli elementi salienti della storia;
Ne risulta un documento piuttosto lungo (anche decine di pagine) da far approvare al cliente.
La seconda fase del lavoro consiste nel trasformare lo storyboard in un learning object. Un lavoro in tre mosse.
Mossa uno: registrazione dei file audio (o video) e disegno degli ambienti dei personaggi, delle immagini, dei pulsanti e di tutte le componenti "visibili".
Mossa due: produzione di un certo numero di file "xml" che descrivono l’aspetto statico del sistema. Si fa "a mano" o, con gli oggetti più complessi, con un editor apposito.
Alcuni di questi file hanno carattere generale:
Gli altri file sono riferiti ciascuno a uno specifico oggetto e ne dettagliano il comportamento. Per esempio, quello relativo a un determinato personaggio definisce:
Mossa tre: stesura di un programma che descrive l’aspetto dinamico. In concreto, si tratta di definire come sono collegate le variabili tra loro e di impostare la sequenza degli eventi. Questa è l’unica parte del lavoro che richiede la conoscenza di un linguaggio di programmazione (oggi, come dicevo, è Javascript, l’unico che viene interpretato dai browser in modo diretto, senza richiedere l’installazione di plugin.
Per esempio, posso decidere che se aumenta il valore della variabile "prezzo" di un prodotto, cambia la variabile "soddisfazione" del cliente. E personaggio "cliente" il cui comportamento è agganciato a questa variabile, manifesterà la sua approvazione o dirà sdegnato "Questa roba non la comprerò mai più!"
Mi rendo conto che un esempio come questo rischia di banalizzare le cose.
Perché in realtà un serious game può essere tremendamente complicato, quando consentiamo al fruitore di effettuare molte scelte diverse in più fasi, quando gli oggetti sono decine e decine, quando facciamo accadere una serie di eventi (alcuni determinati dal comportamento del fruitore, altri no) in base alla storia che vogliamo raccontare.
Ma tra gli obiettivi dei Learning Brick non c’è la semplificazione di una realtà complessa (che ne risulterebbe snaturata). Si tratta, piuttosto, di:
E se capita sia qualcosa che al momento non è previsto?
A quel punto è possibile modificare qualche brick o idearne di nuovi. È un lavoro aggiuntivo, che però resta. Ed è proprio soddisfacendo esigenze particolari, e anche a prima vista bizzarre, che i Learning Brick sono cresciuti per dieci anni e, presumibilmente, continueranno a farlo.
Nell'ultimo decennio l'etichetta "serious games" è andata ad affermarsi per indicare un variegato campo di produzione di giochi digitali da utilizzare in vari contesti didattici, formativi, educativi e dell’assessement psicologico. Seppur anche il nostro gruppo di ricerca abbiamo spesso fatto ricorso a questa denominazione per comunicare la natura delle nostre "cose" ho sempre nutrito un'intuitiva avversione nell'associare la "serietà" alla "giocosità". A dirla con Giampiero Dossena, uno dei più grandi esperti italiani di giochi, il gioco o è divertente o non è (Dossena, 1993). Un altro elemento di perplessità nell'affrontare l'argomento del "serious gaming" è il tentativo classificatorio di molti nel sistematizzare i vari giochi "seri" in famiglie e tipologie in modo finaco di definire le caratteristiche distintive di un gioco autenticamente (o seriamente) "serio". Bene, non so se quello che abbiamo prodotto negli ultimi venti anni grazie a molti progetti di ricerca finanziati da programmi europei presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche e nel Laboratorio di Cognizione Naturale Artificiale dell'Università di Napoili Federico II possa essere etichettato come "serio" e come "gioco" sicuramente abbiamo provato a sviluppare degli ambienti di apprendimento che possano almeno catturare l'interesse dell'utilizzatore se proprio non si riesca a divertirlo. In questo breve scritto cercherò di descrivere sinteticamente la nostra metodologia progettuale e alcuni esempi, la trattazione estesa del nostro approccio è esposta nel manuale di Dell’Aquila et al. (2017). Ovviamente il nostro metodo è solo uno dei tanti modi in cui si possono realizzare degli ambienti di apprendimento digitali basati sul gioco. Il lettore valuterà se il nostro impianto abbia prodotto quantomeno qualcosa di serio e auspicabilmente divertente.
Con l'avvento del computer si è andata affermando anche nelle dscipline umanistiche una potentissima metodologia di ricerca: la ricostruzione/rappresentazione/simulazione della realtà in un ambiente digitale. Tant'è che attualmente la simulazione al computer di "modelli" dei fenomeni cognitivi, psicologici, affettivi e sociali è un processo irrinunciabile e fondante di qualsiasi serio (anche qui) tentativo scientifico nel comprendere l'Uomo in tutte le sue dimensioni (biologiche, psicologiche e sociali). Già agli inizi di questo secolo Domenico Parisi (2000, 2001) ebbe l'intuizione di proporre l'utilizzo delle simulazioni al computer come un potente strumento per il sostegno dei processi di apprendimento/insegnamento. Il ragionamento di Parisi era lineare: i ricercatori apprendono e comprendono la realtà ricostrundola al computer. In fin dei conti i ricercatori sono degli esseri umani allora perchè non applicare il medesimo metodo affinchè tutti (bambini, adulti, anziani, ecc.) possano apprendere tramite le simulazioni? L'idea era giusta e chiara però per portarla su un piano di concretezza occorreva affrontare due problematiche fondamentali: 1) quale fra le tante tecniche di modellistica al computer era la più adatta per la progettazione e la realizzazione delle simulazioni educative; 2) come rendere piacevole e intuitiva l’interazione delle persone con dei modelli matematici anche molto sofisticati quale qualsiasi simulazione al computer è. La prima questione riguarda il “motore” e la seconda si occupa della “carrozzeria” delle simulazioni educative. Il lavoro del gruppo di ricerca a cui afferisco da venti anni a questa parte è volto principalmente ad indagare questi due aspetti. Per quanto riguarda la definizione della metodologia modellistica alla base dei nostri applicativi abbiamo individuato nel Agent Based Modelling un valido strumento per la progettazione e per lo sviluppo dei serious games. In tale contesto un dato fenomeno psicologico è rappresentato tramite la simulazione delle caratteristiche dell’ambiente dove uno o più agenti artificiali dotati di un apparato percettivo e comportamentale interagiscono tra loro (primo livello di modellazione) e dalla tipologia di sistema di controllo (o di intelligenza”) di ogni singolo agente (secondo livello di modellazione). La progettazione educativa dovrà occuparsi in primis di definire le caratteristiche del setting psicologico (primo livello di modellazione) da simulare in digitale. In questo contesto possiamo avere un ampio ventaglio di situazioni, ci possono essere i giochi ad agente singolo (come per esempio nel caso in cui un individuo deve apprendere a risolvere un test-problema per valutare il proprio QI); i giochi diadici (come accade nei colloqui di selezione) e giochi in cui prendano parte tanti individui (come accade in un gruppo di lavoro, ecc.). Il formatore/progettista dovrà anche occuparsi della modellazione di secondo livello ovvero definire quali agenti/avatar dotare di un’intelligenza artificiale e quali lasciarli al controllo dell’utente-giocatore. È intuibile come le varie scelte progettuali su ambedue le fasi di modellazione sono alla base di simulazioni e giochi molto differenti tra loro.
Per quanto riguarda lo sviluppo delle interfacce dai primi anni 2000 abbiamo investito molto sulla grafica 3D (con risultati non sempre esaltanti). Dal 2008 abbiamo cominciato ad arricchire degli oggetti fisici (giocattoli, utensili, boccette, stoffe, ecc.) con sensori NFC in modo da utilizzarli come interfacce tangibili, multi-sensoriali e manipolabili con la simulazione-gioco residente in un computer e più recentemente in uno smartphone.
Di seguito si propongono alcune soluzioni sviluppate nel corso degli anni che hanno l’ambizione di convertire la metodologia sopra descritta in applicazioni pratiche.
Verranno mostrate tre applicazioni, che si sviluppano a partire da bisogni psicologici e di apprendimento specifici e che hanno come collante proprio una modellistica ad agenti che permette di far interagire la persona da formare (studente, discente) con un agente artificiale, che è in grado di reagire opportunamente all’input e allo stesso tempo di collezionare dati per analizzare i risultati di apprendimento (modulo di learning analytics).
Il primo esempio è di un gioco denominato ENACT che si rivolge alla formazione aziendale al fine di valutare e allenare l’utente nella sua capacità nella negoziazione tra pari. Il gioco parte dalla necessità di semplificare l’applicazione dei test psicologici. Gli stessi, infatti, sono solitamente carta e matita e la persona in valutazione deve rispondere ad un numero molto alto di domande, spesso piuttosto articolate. Gli effetti collaterali di questa modalità sono evidenti: oltre ad un possibile effetto stanchezza, si ha anche la problematica di rispondere subendo la desiderabilità sociale.
Due immagini del gioco ENACT. A sinistra alcune informazioni base per la definizione del contesto in cui il giocatore si troverà ad interagire, a destra una tipica conversazione del gioco.
Per prevenire questo schema, l’idea è creare un gioco (serio) che risulti piacevole e sufficiente immersivo per quanto riguarda in particolare la narrazione, ovvero proporre degli scenari quotidiani e di facile immedesimazione in cui l’utente si confronta e negozia con un avatar artificiale. L’avatar artificiale è l’agente con cui ci si confronta e che risponde e conversa con il giocatore. La conversazione non riguarda solo parametri verbali, ma anche quelli non verbali legati alla gestualità e al tono della conversazione. Tutti questi aspetti fanno riferimento al secondo ambito di ricerca ovvero alla sopracitata “carrozzeria”, con l’obiettivo di inserire elementi piacevoli, tali da permettere al giocatore di essere maggiormente coinvolto nel gioco.
L’obiettivo finale del gioco è valutare il profilo da negoziatore del singolo giocatore e, in seconda battuta, di allenarlo a gestire le situazioni di conflitto, aderendo al miglior stile di negoziazione per ogni differente situazione.
ENACT è stato sviluppato sia per web browser sia pubblicato come app a disposizione per dispositivi Android sul PlayStore.
Un altro esempio di applicazione che riflette un modello ad agenti, è denominato Baldo.
Baldo è un gioco di carte in prima persona, ovvero si interagisce direttamente con un avatar “intelligente, pensato soprat
tutto per aiutare i bambini piccoli a fare ginnastica mentale con i numeri. Nel gioco è presente un mazzo di carte speciali (Carte di Leonardo) create seguendo i principi della teoria scientifica del "Number Sense" secondo la quale la nostra mente rappresenta i numeri con tre codici diversi.
I codici sono:
Il gioco delle carte è dunque arricchito da un avatar, ovvero un agente, che gioca realmente e riproduce le operazioni tipiche di una partita, ossia sceglie la carta, la lancia ed infine tende ad avere una risposta umorale. È proprio quest’ultimo tassello che si lega all’ambito dell’affective computing che può essere determinante nel caso di bambini che hanno il desiderio di apprendere la matematica e ancora di più nel caso della presenza di alcune disabilità.
L’ultima applicazione mostrata è quella di BlockMagic (Di Ferdinando et al., 2015), ossia un gioco che parte dal bisogno psicologico e formativo di apprendere la logica e la geometria utilizzando i blocchi logici. Questi sono materiali strutturali utilizzati in moltissime scuole dell’infanzia e nella scuola primaria in Europa. Il giocatore ha a disposizione 48 blocchi che differiscono per forma, colore, dimensione e spessore creando differenti categorie. La novità di BlockMagic è di proporre una tavoletta attiva che, grazie alla tecnologia NFC, è in grado di riconoscere ogni singolo blocco, comunicando con una piattaforma digitale. Il bambino si trova ad apprendere utilizzando la multisensorialità, in particolare attraverso il senso del tatto, ma ottiene un feedback da un sistema digitale, governato da un agente che orchestra la sessione e propone al bambino l’esercizio di una difficoltà congrua rispetto al proprio percorso di apprendimento. Il bambino quindi interagisce fisicamente con degli oggetti (i blocchi logici) fisici e tangibili, ma ha una risposta e un’interazione con uno schermo che produce un feedback visivo e sonoro opportuno per ogni interazione.
In tutti e tre gli esempi proposti, l’agente è centrale nell’interazione con l’individuo, rendendo l’esperienza formativa fluida e soprattutto personalizzata, andando a sviluppare, rafforzare e/o sostenere le competenze secondo le esigenze di ogni singolo utente.
La gamification è l’applicazione di elementi propri del gioco (punteggi, classifiche, sfide, livelli, premi simbolici e altro ancora) in contesti non giocosi (tipicamente lavorativi o produttivi in genere, ma anche sociali, legati a luoghi o momenti della vita collettiva o, infine in contesti formativi più o meno strutturati).
La gamification può essere utilizzata per scopi diversi: marketing, apprendimenti, aumento della produttività, gestione risorse umane, sostenibilità, benessere, affiliazione dei clienti e dei dipendenti. E, in particolare può essere attivata per promuovere comportamenti virtuosi o, al contrario, inibire comportamenti dannosi, improduttivi o antisociali.
A Londra nel 2015 è stato realizzato un esperimento allo scopo di tenere le strade pulite: i fumatori gettando i propri mozziconi nel box votano per il loro calciatore preferito.
SocialSwip è un progetto dell’organizzazione umanitaria MISEREOR: passando la carta di credito attraverso il poster interattivo si donano 2 euro e il tabellone si attiva visualizzando l’effetto, ad esempio il taglio di una fetta di pane da un filone che verrà donata a una famiglia in Perù.
Ma la sfida più interessante è quella di portare la gamification all’interno di contesti lavorativi: si tratta quindi di orientare il comportamento dei colleghi associando agli “obblighi” legati al lavoro la “promessa” di ricompense simboliche (o anche concrete) che premino un certo comportamento: inserire le note spese entro la prima settimana del mese successivo, aggiornare il proprio timesheet settimanale, completare un percorso formativo, partecipare a un forum e così via.
Un’agenzia creativa londinese ha inventato il frigo-Timesheet: un frigo bar che si apre automaticamente dalle 16.00 di ogni venerdì solo se tutti i dipendenti hanno inserito il loro foglio-ore. Nel display in alto viene mostrato il livello di completamento di ciascun dipendente, spingendo così i colleghi a “sollecitare” gli altri in modo da assicurarsi l’aperitivo gratuito.
In questa azienda russa ciascun dipendente può lasciare delle “pacche sulla spalla” simboliche che danno punti ai colleghi per ringraziarli di un qualche aiuto ricevuto sul lavoro.
La gamification noi l’abbiamo applicata in un contesto di comunicazione e formazione interna: il 119, grande call center telefonico italiano.
Il nostro obiettivo era quello di creare un ambiente di social learning per gli operatori telefonici, quindi e-learning più una community di apprendimento collaborativo che aumentasse la conoscenza tramite il reciproco scambio di saperi.
Ovviamente il progetto è partito grazie a bisogni più ‘istituzionali’, la mappatura delle competenze e l’esigenza di formare gli operatori sulle tecnologie legate ai telefoni di nuova generazione (il cosiddetto gruppo VAS).
Il progetto parte in un’epoca che oggi possiamo definire storica, di cambiamento epocale: era il luglio del 2008, c’erano i Blackberry e i primi smartphone e si attendeva l’uscita in Italia del primo iPhone. Mancava quindi la conoscenza su queste nuove tecnologie sia lato operatori che lato utenti, e si apriva un nuovo mondo di cui all’epoca non immaginavamo minimamente gli sviluppi futuri.
Intorno ai bisogni di aggiornamento continuo legati non solo ai telefonini di nuova generazione, ma anche alla necessità di formarsi sulla gestione del cliente e sulle offerte commerciali (lanci commerciali mensili), abbiamo costruito la piattaforma Campus integrandola con i sistemi di gamification.
Prima di tutto, come in ogni social network, abbiamo messo le persone al centro dandogli la possibilità di entrare in un campus virtuale dove potevano agire e condividere soluzioni e problemi, uscendo dal mondo chiuso della cuffia.
Ogni persona aveva:
Abbiamo definito un dettagliato sistema di ranking e reputation assegnando un punteggio sia alle azioni sulla piattaforma (pubblicazione di un materiale, un intervento sul forum, sul blog) che ai like/voti ricevuti.
Tramite questo sistema abbiamo fatto in modo che gli utenti più votati e più attivi comparissero in automatico in home page e che fosse evidenziato nel profilo di ognuno il dettaglio del rating di partecipazione e della qualità dei contributi offerti, ottenuti sulla base dei giudizi della community stessa.
Visibilità e reputazione sono infatti fattori indispensabili della Gamification per favorire la partecipazione e fare emergere i talenti.
All’inizio abbiamo coinvolto i più smanettoni sulle tecnologie VAS e subito sono emersi gli early adopter che hanno cominciato spontaneamente, e talvolta spintaneamente, ad utilizzare la piattaforma proponendo materiali utili, job-aid, creando discussioni atte alla risoluzione dei problemi. Si è così messo in moto l’onboarding e contemporaneamente è emerso il vero spirito di Campus che poi è diventato il motto: “A volte impari, a volte insegni. Ogni volta cresci.”
Come Redazione, abbiamo lavorato sul rendere piacevole e gratificante l’essere su Campus, abbiamo puntato sul valore della condivisione invitando gli utenti a pubblicare tecniche, saperi, materiali, guide utili che magari avevano nel cassetto. Abbiamo insistito sull’idea che condividendo non si perde, anzi si cresce e si emerge. Abbiamo fatto evangelizzazione di strumenti social e avviato i primi progetti di social caring (all’epoca in pochi avevano account di gestione del cliente sui social nertwork come Facebook o Twitter).
Il fatto di emergere e risultare esperto in determinate specializzazioni dava quindi lo stimolo a partecipare e a dare il meglio di sé. La voglia e il bisogno di aggiornarsi e avere risposte veloci su un determinato problema ha creato un clima di social collaboration molto vivo. Talvolta le risposte a un problema arrivavano dopo pochi minuti.
Il valore delle motivazioni intrinseche
Gradualmente, siamo riusciti a entrare nella giornata tipo degli utenti che tutti i giorni, oltre a tanti altri sistemi che utilizzavano, aprivano anche Campus. Abbiamo quindi portato a bordo (onboarding) le persone che partecipavano per il piacere di condividere, risolvere problemi, collaborare, sentirsi parte di un gruppo, formarsi e conoscere colleghi di altre città.
Queste sono tutte motivazioni intrinseche, fondamentali nella gamification:, le persone partecipano perché si divertono e perché la community riconosce il valore dei contributi che danno. Creare un luogo divertente e gratificante è infatti fondamentale per la gamification che, come ricordiamo, prende spunto dalle dinamiche del gioco per ottenere effetti positivi nella vita reale.
Sfide, traguardi, classifiche
Come leva per l’onboarding talvolta abbiamo lavorato anche sul lancio di sfide con traguardi e classifiche. Queste azioni erano mirate ad incentivare la formazione, migliorare le competenze nella gestione delle chiamate e motivare la partecipazione stessa. A volte erano destinate non al singolo ma al gruppo di risposta capitanato dal Supervisor, ciò per creare una sana competizione tra gruppi.
Questo ha generato sicuramente effetti dopanti: le persone partecipavano per il premio e non per motivazioni personali. E in effetti, le motivazioni estrinseche possono portare alla manipolazione delle persone instradandole in un percorso legato al premio o all’obiettivo imposto dall’esterno. Però abbiamo sempre cercato di finalizzare queste sfide a fini lavorativi e professionali, cercando di far leva sulle motivazioni personali.
Certo, c’era anche chi partecipava solo alla formazione o alle azioni ‘imposte’, ma sicuramente per molti si è creato un luogo di crescita e di sostegno reciproco che, anche grazie ai sistemi di gamification, hanno attuato comportamenti di sana collaborazione e socializzazione. Con nostra grande soddisfazione ci sono anche stati casi di persone che, mettendo in campo le proprie potenzialità professionali su Campus, sono emerse e gli è stato dato un riconoscimento inaspettato e nuovi ruoli professionali fuori dal call center.
I risultati che ci siamo portati a casa da questa esperienza sono i seguenti:
In conclusione possiamo dire che la gamification con un occhio puntato sul design thinking orientato sui bisogni e le motivazioni intrinseche delle persone, senza mai esagerare con motivazioni estrinseche, e che abbia la giusta dose di PBL (points, badge, leaderboards) può dare risultati notevoli. Nel nostro caso la gamification ci ha aiutati a costruire una community di social learning affiatata e coesa nell’obiettivo, reale, di lavorare meglio e crescere professionalmente.
(La Redazione di Campus ha visto la collaborazione di persone preziose con le quali siamo cresciuti professionalmente: Marco Lotito - la vera anima di Campus senza il quale il progetto non si sarebbe mai concretizzato -, Giuseppe De Nicolellis, Fausto Liberini, Leuca Alison, Gianluca Affinito, Manuela Cuccu, Edoardo Paglialunga e tutti quelli che hanno creduto e arricchito questo progetto.)
Negli ultimi anni il settore del digital learning in Italia sta conoscendo una crescita oltre le aspettative e probabilmente sta giungendo ad una piena maturità.
Nella prima fase di espansione dell’e-learning nel nostro Paese, tutti gli operatori si sono prevalentemente concentrati sull’aspetto dell’efficienza.
Oggi abbiamo quindi strumenti e infrastrutture tecnologiche diffuse e performanti: le potenzialità e le funzionalità degli LMS si allargano sempre più, ci sono in commercio numerosi tool di sviluppo pensati appositamente per la creazione di corsi digitali.
Tuttavia, questa visione “tecnocentrica” ha probabilmente lasciato in secondo piano l’aspetto più importante, visto che parliamo di formazione: l’efficacia.
Infatti, una buona parte della formazione on line in questo momento è ancora costituita da corsi che seguono un approccio di tipo tell-test.
Questo è un meccanismo tipicamente push in cui il discente digitale “subisce” la spiegazione di numerosi concetti, spesso senza alcuna attenzione al carico cognitivo e soprattutto senza alcuna possibilità di interazione.
L’unica interazione è a valle del percorso e consiste solitamente in un test che usa come strumenti di verifica esclusivamente domande a risposta multipla, come se qualsiasi area di conoscenza possa essere verificata tramite quiz a opzioni.
Se è vero, come ci insegna Malcom Knowles, il massimo esperto di andragogia nel suo manuale “Quando l’adulto impara”, che “le persone tendono a sentirsi impegnate in una attività in diretta proporzione alla loro partecipazione o influenza sul processo decisionale che la riguarda”, allora è vero che molti corsi per adulti non sono progettati in base alle caratteristiche del loro target, cioè sono function focused anziché human focused.
Qual è la differenza? Chi adotta il function focused design progetta con l’unico scopo di ottenere un obiettivo nel minor tempo possibile. La catena di montaggio e l’approccio taylorista ne sono un tipico esempio. La parola chiave è efficienza. Questo approccio ha però un punto debole: non considera che gli esseri umani non sono automi ma provano emozioni e hanno pensieri autonomi. L’unico approccio realmente efficace è quindi quello che ottimizza la progettazione in considerazione del fattore umano, tenendo conto di emozioni, motivazioni e coinvolgimento perché questo dà la garanzia di un risultato a prescindere dalla coercizione e dal controllo.
A proposito di coercizione e controllo, il filosofo olandese Huizinga nel suo libro “Homo ludens” affermava “Ogni gioco è anzitutto un atto libero”. E non è un caso che proprio l’industria del gaming sia stata la prima ad adottare lo human focused design. Perché? Perché questo settore si fonda sul coinvolgimento e sulla motivazione dell’utente. Ed ecco perché probabilmente ha qualcosa da insegnare anche a noi che ci occupiamo di formazione.
Sì, perché è evidente a tutti: la sfida della formazione oggi non può più limitarsi a trasmettere delle informazioni ma è guadagnare l’attenzione dei discenti, coinvolgerli, metterli al centro dei loro percorsi d’apprendimento, in altre parole «ingaggiarli».
Nel corso dei miei 13 anni di attività professionale come instructional designer ho indagato a fondo questo campo e stratificato un modello didattico che sfrutta alcuni dei principi del game design per ribaltare l’approccio didattico di tipo tell-test mettendo al centro il discente e favorendo la sua autonomia nell’esplorazione dei contenuti, in coerenza col ruolo che Knowles riconosce al formatore nel campo andragogico di “facilitatore dell’apprendimento”, in contrasto con il tipico del modello pedagogico di un’istruzione diretta dal docente e che lascia al discente solo il ruolo subordinato di seguire le istruzioni dell’insegnante.
Seppure i corsi a cui è stato applicato il modello fanno riferimento agli ambiti più disparati e differenti tra loro (formazione di prodotto in ambito hardware, skills di vendita, training normativo sulle procedure per Informatori scientifici del farmaco) è vero che lo schema metodologico applicato rimane costante e presenta alcune caratteristiche chiave che proverò qui a sintetizzare per fornire non certo una “formula magica” ma un esempio applicativo concreto delle strategie della gamification al digital learning.
#1 Performance based
“man mano che gli individui maturano, il loro bisogno e la loro capacità di essere autonomi, di utilizzare la loro esperienza nell’apprendimento, di riconoscere la loro disponibilità ad apprendere, e di organizzare il loro apprendimento attorno ai problemi della vita reale, cresce costantemente […]” afferma Knowles.
Questo mi ha portato a riflettere su come spesso nel mondo della formazione aziendale e in generale della formazione per adulti manchi un nesso con la pratica e l’esperienza lavorativa dei discenti e i corsi sono incentrati sempre sulle nozioni e sulle informazioni, anche quando in realtà l’obiettivo finale è l’apprendimento di un saper-fare.
Il termine FLIP indica un capovolgimento, un ribaltamento. Il primo switch da fare è passare dai corsi information-based a quelli performance-based che sono basati su prestazioni o decisioni che devono essere eseguite e misurate.
A differenza del tipico approccio tell-test, il palcoscenico deve essere occupato dalla performance e non dai contenuti teorici che, per restare in metafora, devono rimanere nel backstage.
#2 Go micro
I contenuti oggetto dell’intervento formativo vengono sintetizzati e segmentati in piccole porzioni creando delle pillole didattiche di facile e veloce consultazione: questo aspetto chiama in causa anche il microlearning e l’esigenza di evitare il sovraccarico cognitivo dei discenti. Tutte le pillole vengono indicizzate e posizionate in una sorta di manuale virtuale accessibile in ogni momento e in ogni punto del corso. In questo modo il discente è invogliato a consultare i contenuti (in modo pull e non push) perché diventano essenziali per raggiungere un obiettivo.
Esempio di manuale interattivo dei contenuti. L’immagine di proprietà di ASUS è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta o condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
#3 Storydoing
Il discente appena entra nel corso non si imbatte in una elencazione di concetti da memorizzare ma viene proiettato in una storia che contiene una missione di cui lui non è solo spettatore ma protagonista influenzando con le sue azioni lo svolgersi degli eventi.
Esempio di missione. L’immagine di proprietà di Daiichi Sankyo è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta o condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
#4 Vincere la sfida
Per superare questa missione e raggiungere la meta (qualunque essa sia) deve affrontare una serie di sfide costruite come scenari di apprendimento. Ogni sfida verte su una competenza e il discente deve dimostrare di possederla scegliendo il comportamento corretto tra una serie di comportamenti possibili. La valutazione in questo modello non è un momento singolo relegato al termine del percorso didattico e separato dall’apprendimento ma le due componenti vanno di pari passo.
Esempio di momento decisionale. L’immagine di proprietà di ZEGNA è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta e condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
#5 Learning by doing
Se il discente sbaglia sperimenta le conseguenze delle proprie azioni, compreso il fallimento in cui deve ricominciare da capo (game over). Se il discente sceglie il comportamento giusto, allora prosegue nel suo percorso verso la meta.
Il discente non apprende solo tramite la consultazione dei contenuti ma anche attraverso le prove e gli errori che compie. Il feedback del sistema è uno strumento di apprendimento a tutti gli effetti che stimola il learning by doing. Le conoscenze apprese in questo modo sono “conoscenze operative” e per questo sono più memorabili rispetto alle “conoscenze figurative” ossia astratte.
Esempio di game over. L’immagine di proprietà di COOP è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta e condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
#6 Autonomia
L’utente sceglie autonomamente quando studiare i contenuti e quando mettersi alla prova. Il corso smette di essere un oggetto monolitico che viene subito dal discente e si crea uno spazio di autonomia che lascia il posto a strategie di apprendimento differenti. Alcuni discenti preferiscono affrontare direttamente le sfide e (in caso di fallimento) studiare la nozione. Altri, invece, sono più metodici e preferiscono prima studiare e poi mettersi alla prova. Dunque, in base alle competenze inziali in possesso e allo stile di apprendimento ogni discente si muove in modo differente.
L’utente non è MAI obbligato in nessun modo a consultare i contenuti perché se riesce a superare gli scenari di apprendimento significa che già è in possesso di quelle nozioni e non ha senso obbligarlo a formarsi su qualcosa che già sa perché questo è frustrante e (per certi versi) poco rispettoso.
Parlando di applicazioni della gamification, non possiamo non fare riferimento al Framework Octalysis sviluppato dal guru del settore Yu-Kai Chou. Questo modello, in sostanza, ci dice che il comportamento e la motivazione di ogni persona è influenzata e trainata da 8 istinti primari, chiamati Core Drives o dinamiche di gioco. Se impariamo a sfruttarle a nostro vantaggio anche nei percorso formativi, massimizzeremo l’attenzione e il coinvolgimento dei discenti. Ognuna di queste dinamiche può essere soddisfatta/remunerata attraverso strumenti concreti (chiamati meccaniche di gioco) che si inseriscono nel percorso.
Andiamo ora a vedere su quali di questi elementi si basa FLIP. Per un focus sul significato dei core drive e sulle relative meccaniche rimando al sito di Yu-Kai Chou.
Epic Meaning&calling
Narrative
Il primo Core Drive su cui FLIP si basa è la narrazione epica attraverso sui il discente è sempre chiamato ad immedesimarsi nel protagonista. Sin dai tempi dell’antica Grecia l’uomo cerca la gloria e se sente che può partecipare a qualcosa di eroico, allora il suo coinvolgimento e la sua motivazione aumentano.
In uno dei corsi che ho sviluppato il protagonista era un esploratore intrappolato in una giungla la cui unica speranza di fuga era ritrovare una mongolfiera, posta al termine di un lungo percorso pieno di enigmi (didattici) all’interno della foresta. Questa ad esempio è una tipica “escape story”. In questo modo, si colloca l’azione dell’utente all’interno di una cornice narrativa, la si arricchisce di uno scopo, un fine “alto” che funge da traino motivazionale. Attenzione: questo non vuol dire che bisogna necessariamente ricorrere a mondi altri o a metafore. In alcuni casi, i corsi erano ambientati sul posto di lavoro: ad esempio in un punto vendita in cui una commessa neoassunta deve fare i conti con dei clienti particolarmente esigenti e ha bisogno dell’aiuto del discente per soddisfarli.
In ogni caso, in qualsiasi progetto gamificato la componente dello storytelling è imprescindibile. Per approfondire questo tema consiglio di dare una occhiata alla bibliografia di Andrea Fontana, probabilmente il massimo esperto di storytelling in Italia.
Accomplishment
Progress bar
Un altro istinto forte in ciascuno di noi è la voglia di progresso. A pensarci bene, tutta la nostra vita è organizzata come una continua evoluzione verso obiettivi di difficoltà crescente. E noi, come uomini, abbiamo bisogno sempre di nuovi stimoli e di vedere che stiamo riuscendo a progredire.
Questa dinamica si concretizza nella presenza di tool che indicano lo stato del nostro avanzamento nel percorso gamificato chiarendo cosa abbiamo conquistato e cosa ci resta da conquistare per raggiungere l’obiettivo. Nei corsi di vendita, ad esempio, la barra indica lo stato del cliente: se la barra è vuota il cliente è insoddisfatto, man mano che progrediamo la barra si riempie. In altri tipi di corsi può rappresentare la percentuale di esplorazione del mondo o di enigmi risolti sul totale.
Esempio di progress bar. L’immagine di proprietà di COOP è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta e condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
Esempio di statistiche di gioco. L’immagine di proprietà di MODULA è a solo scopo rappresentativo e non può essere riprodotta e condivisa esternamente o utilizzata per altri fini.
Fanno riferimento a questo Core Drive anche tutti i meccanismi di leveling up ossia la presenza di livelli di difficoltà crescente che si sbloccano solo al completamento del livello precedente.
Avoidance
Progress loss
La paura della perdita è uno degli istinti primari umani più forti, anche nel mondo virtuale.
Sfruttando questa leva, il game over del nostro percorso gamificato può diventare una spinta a concentrarsi maggiormente per evitare la conseguenza negativa.
Ad esempio, in un corso per agenti di vendita se venivano usate le parole sbagliate durante la trattativa, la trattativa falliva e il discente era costretto a prendere un nuovo appuntamento col cliente e ricominciare. Proprio come avviene nella vita reale.
In questo senso, il game over è uno strumento prezioso perché avvicina l’esperienza formativa alla realtà lavorativa, rendendola quindi più efficace.
Una domanda sorge spontanea. Come mai sono stati applicati solo 3 degli 8 core drive?
Perché gamificare significa sfruttare solo alcuni degli elementi del game design e non tutti. Altrimenti non sarebbe gamification ma un gioco tout court.
Peraltro, la scelta delle dinamiche su cui puntare viene fatta in relazione agli obiettivi che si vogliono perseguire. Immaginiamo ad esempio di inserire nel nostro modello la meccanica del count down che fa riferimento alla scarsità (temporale). La pressione prodotta dall’assenza di tempo scoraggerebbe il discente dall’esplorazione dei contenuti aumentando il numero di tentativi a caso. Questo non è quello che vogliamo ottenere. Pertanto, non sono stati inseriti meccanismi di count down ma c’è il game over che funge appunto da “antidoto” contro i tentativi a caso scoraggiandoli (se il rischio è perdere e ricominciare da capo, evito di dare risposte non ponderate).
A riprova che qualsiasi progetto (e quelli gamificati non fanno eccezione) ha nell’analisi del target e degli obiettivi e nella progettazione il suo elemento più importante.