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L'acqua è l'origine di tutte le cose, già ne parlava Talete, e oggi ci ritroviamo qui, qualche secolo più avanti (e di acqua ne è passata) a discutere ancora - ma mai abbastanza - dell'acqua come origine di importanti questioni climatiche, sociali, politiche ed economiche. L'acqua scorre tra le dinamiche di potere.
Oro blu: storie di acqua e cambiamento climatico di Edoardo Borgomeo, è un viaggio narrativo che scorre con l'acqua, un testo che si legge in un sorso solo, ricco di colori, odori e delle voci di chi abita le sue storie. L'osservazione etnografica dell'autore sembra rispondere ad una forte esigenza di divulgazione, affiancata ad una sincera passione e vocazione per l'idrologia. Oro blu: storie di acqua e cambiamento climatico è un libro da leggere e rileggere, perché tra le storie che narra c'è un'importante lezione da imparare e tenere a mente: «L'acqua non ha bisogno di noi […] Noi abbiamo bisogno dell'acqua». Ogni capitolo è un viaggio.
In Bangladesh scopro che alcuni abitanti della zona sudoccidentale del paese conoscono sia un'acqua buona che una cattiva. Scopro soprattutto che c'è chi si trova a: «Vivere una vita così, presa in prestito dall'acqua».
L'autore ci conduce in Brasile dove ci presenta il «nonno di tutti i brasiliani», il fiume São Francisco, il velho chico (sì, più importante del Rio delle Amazzoni che, penso mentre leggo, potrà aspirare al massimo alla posizione di zio, di quelli che vedi solo a Natale e ti fanno sempre un regalo importante), per poi fare capolino nella quotidianità lavorativa di chi ha il compito di «Decidere chi berrà per primo da un bicchiere che è praticamente vuoto».
In Australia è incredibile scoprire che c'è chi combatte per la riverlution dedicando la sua vita professionale allo studio di una «proposta di legge per rendere i fiumi un soggetto giuridico» perché «La vera rivoluzione ambientale passa dal diritto».
Il viaggio prosegue in Olanda, un paese dove i bambini «quando disegnano la loro casa la mettono in mezzo ai canali», un paese che non solo ha capito come vivere nell'acqua e con l'acqua, ma che da essa prende il nome e la definizione della sua identità. Dall'Olanda imparo che «Convivere con l'acqua richiede un adattamento costante e continuo», più che politiche di gestione che sfruttano e arginano.
Nella mia amata e odiata Londra faccio la conoscenza dei fatbergs, i mostri delle fogne, iceberg di grasso e spazzatura, figli del «nostro stile di vita, della nostra società usa e getta» che si muovono minacciosi sotto i piedi frenetici dei londinesi, e che richiedono l'intervento dei flushers, i Ghostbusters delle fogne.
Arriviamo poi in Pakistan, dove la mafia dell'acqua «decide chi beve, chi si fa il bagno, chi può cucinare». In questo capitolo l'autore racconta la Storia di una presa di responsabilità, che non va lasciata lì, tra le pagine stampate e il pour parler, ma va accolta e praticata nella vita di tutti i giorni, tanto più da chi ha il lusso di poterselo permettere.
Nell'Iraq meridionale, la terra dei Sumeri culla della civiltà, è dove si può assistere alla «moderna cacciata dall'Eden; una migrazione non dovuta al peccato originale, ma alla mancanza d'acqua», e dove le strategie di distruzione di Saddam Hussein incontrano quelle di Leonardo Da Vinci e Machiavelli.
L'autore ci fa arrivare ora in Messico, un altro esempio di grande rispetto per l'acqua e di una capacità di convivere con la sua natura: «Lasciare all'acqua il suo spazio fa in modo che la sua forza distruttiva si trasformi in fertilizzante per l'agricoltura». In Messico l'acqua è protagonista di diversi scenari, «scorre verso l'alto», dalla paura, ai conflitti, fino al murale di Diego Rivera L'acqua, l'origine della vita sulla Terra.
La fine del viaggio ci riporta a casa, in Sicilia, dove la storia e la persona di Danilo Dolci mi stregano e conquistano, e rendono questo il mio capitolo preferito. Una mente lungimirante e aperta all'ascolto, che ha capito quanto la cura dell'acqua (e della natura nel suo insieme, aggiungo), scorra accanto alla capacità di prendersi cura degli altri.
L'idrofilia è un tema attuale, urgente e sociale. Dobbiamo recuperare una visione più ampia della vita e della società e abbandonare il solipsismo dell'Io in un cui stiamo affogando: «La tesi di questo libro è semplice: la gestione dell'acqua non è solamente compito di ingegneri, economisti o ecologi, ma è compito di tutti».
La consapevolezza della crescente rilevanza che va assumendo la questione del cambiamento organizzativo e culturale degli apparati pubblici italiani ha generato nell’arco degli ultimi trent’anni una cospicua produzione di riflessioni e di proposte alle quali si è accompagnato un groviglio legislativo che più che dar luogo a processi reali di innovazione ridondanze normative e sovrapposizioni talora paralizzanti. In ogni caso non c’è dubbio sul fatto che le misure normative attivate, al di là di ogni analisi sulla loro concreta attuazione e sui loro limiti, abbiano cominciato ad introdurre, almeno sul piano formale, qualche timida innovazione nel corpo degli ordinamenti dell’amministrazione (e su tale constatazione la maggior parte delle riflessioni disponibili sembra convergere).
Il vero problema si pone quando si passa dalla dimensione normativa a quella delle azioni capaci di sostenere i processi di cambiamento: in effetti, il successo di una strategia di innovazione non può essere affidato solo alle leggi le quali, come è noto, sono una condizione indispensabile, ma del tutto insufficiente. Occorrerebbe insomma essere in grado di accompagnare il cambiamento. Ma per riuscire in una simile impresa non basta una visione strategica; è necessario conoscere il campo d’azione, poiché, da questo punto di vista, è più che mai vero, come è stato notato, che “un’organizzazione non può sapere dove va se non sa che cosa è” (Weick 1997). Purtroppo, su questo terreno, in Italia occorre misurarsi con un grave deficit di conoscenze sistematiche riguardanti il funzionamento delle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli della loro articolazione. Mancano infatti analisi sul fenomeno burocratico italiano che siano, ad esempio, comparabili per spessore e paradigmaticità agli studi crozieriani sulla burocrazia francese (Crozier 1969 e 1988): la ricerca promossa nei primi anni ‘80 del secolo scorso dell’allora ministro della Funzione Pubblica Giannini (Formez 1983), data la sua impostazione prevalentemente giuridica e descrittiva dei dispositivi procedurali degli apparati, non ha potuto affrontare in termini interpretativi la questione del funzionamento dei sistemi d’azione pubblica. È dunque cruciale che le autorità politiche e la comunità scientifica assumano un impegno di ricerca finalizzato a colmare i limiti conoscitivi ed a portare indicazioni utili all’azione di sostegno delle politiche di cambiamento. Tuttavia, partendo dalle conoscenze disponibili, comprese quelle intuitive e di senso comune rintracciabili nel dibattito corrente, vi sono alcuni punti di attacco condivisi che aiutano ad immaginare percorsi virtuosi e potenzialmente efficaci. Uno di essi è costituito dalla critica del garantismo e della cultura della conformità normativa che sono i capisaldi che storicamente hanno determinato quello scambio perverso tra basse retribuzioni da un lato e garanzia del posto di lavoro dall’altro: uno scambio che, a sua volta, ha di fatto generato un sistema burocratico pesante e fondato sulla bassa qualità delle prestazioni lavorative. Alla cultura lavorativa tradizionale bisognerebbe cercare di sostituirne una basata sulle seguenti opzioni di principio: a) decentramento decisionale; b) responsabilità; c) riconoscimento dei meriti; d) orientamento al cittadino; e) professionalismo.
A queste opzioni di principio – che valgono come ancoraggio di azioni che facciano leva non solo sull’applicazione delle riforme, ma anche e soprattutto su una strategia di ri-motivazione che restituisca senso, dignità e identità organizzativa e sociale al lavoro dei quadri pubblici – bisogna aggiungerne un’altra che valga come orientamento costitutivo del pensiero istituzionale incarnate da soggetti consapevoli e responsabili del proprio ruolo: è la dimensione etica come proposto dal recente contributo di Fabrizio Giorgilli, dirigente pubblico di lunga esperienza e studioso attento delle organizzazioni, che invita ad una riflessione di tipo nuovo in un lavoro di ampio respiro, Etica e virtù nel lavoro pubblico, che si distingue non solo per la ricchezza delle suggestioni teoriche e storiche, ma anche e soprattutto per l’originalità della prospettiva delineata.
L’assunto da cui muove la visione di Giorgilli segnala la necessità di andare oltre le visioni tecnocratiche ed efficientistiche del lavoro pubblico (che, specie nell’esperienza italiana, hanno paradossalmente contribuito a generare inefficienze di vario tipo a tutti i livelli), per approdare all’idea secondo cui il fondamento dell’agire amministrativo debba essere fondato sul valore e sul senso, in una parola su comportamenti basati (weberianamente) sulla responsabilità da intendere nel significato originario del termine come attitudine e propensione a dare risposte pertinenti ai problemi. Rispondere (a se stessi e agli altri) del proprio agire è in effetti uno dei fondamenti costitutivi della convivenza fin dalle origini delle associazioni umane. A maggior ragione lo è (o meglio dovrebbe esserlo) in società che, come le nostre, hanno raggiunto straordinari livelli di complessità e di interdipendenza.
Nel riconoscere alle amministrazioni pubbliche un ruolo cruciale per la promozione e il sostegno della crescita economica e sociale, Giorgilli sottolinea come tale ruolo, nel tempo, si sia marginalizzato in quanto frenato fin quasi al blocco da una proliferazione patologica di leggi non sempre chiare e non sempre utili generando in tal modo vincoli burocratici insopportabili per i cittadini e ingorghi procedurali insostenibili per il sistema. Un simile punto di vista rende necessario liberare le p. a. dalla sovrapproduzione normativa che caratterizza, specie in Italia, gli apparati (centrale e periferici) dello Stato con conseguenze controintuitive e paralizzanti dal punto di vista dell’efficacia (non meno che dell’efficienza) dell’azione pubblica: un effetto certo non desiderato, ma sotto gli occhi di tutti. Il diverso approccio proposto da Giorgilli ha l’ambizione di fornire all’attenzione del dibattito e al decisore politico gli elementi di una strategia alternativa orientata all’elaborazione di un’etica del lavoro pubblico fondata sulla responsabilità dell’insieme delle reti di attori istituzionali che costituiscono l’amministrazione centrale e periferica dello stato.
Tale prospettiva è costruita a partire da una solida esplorazione analitica dei fondamenti concettuali che fanno da sfondo teorico al discorso sull’etica pubblica, si articola poi in un’ampia ricognizione della letteratura sull’identità del lavoro negli apparati pubblici (con rilevanti approfondimenti comparativi sugli assetti istituzionali di molti paesi occidentali) e culmina in un’interessante proposta centrata sull’”etica della virtù” assunta come nucleo strutturante intersoggettivamente fondato che dovrebbe orientare i comportamenti dei singoli e dei gruppi, così come la necessaria funzione dei dirigenti.
L’insieme delle analisi e delle proposte contenute nel lavoro di Giorgilli, supportate da un imponente apparato di riferimenti ad una notevole varietà di campi disciplinari, costituisce un prezioso contributo alla necessaria riflessione sul senso e sulle prospettive del lavoro nelle organizzazioni pubbliche. Una riflessione tanto più urgente quanto maggiore è oggi il bisogno di misurarsi con le molteplici esigenze che le società contemporanee reclamano.
Riferimenti bibliografici
Crozier M. (1988), Stato modesto, stato moderno, Roma, Edizioni Lavoro (nuova ed. con nuova “Introduzione” di D. Lipari, 2010) [ed. or. 1987]
Crozier M. (1969), Il fenomeno burocratico, Milano, Etas [ed. or. 1964]
Formez (1983), Ricerca sull'organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni Centrali dello Stato (indice generale + 3 volumi), Roma, Formez
Weick K. E. (1997), Senso e significato nell'organizzazione, Milano, Cortina [ed. or. 1995].