Sono una appassionata di parole: mi piace leggerle, mi piace scriverle, mi incantano le sconfinate possibilità di questo mix di segnetti messi ad arte e di relativi suoni nel sollecitare le nostre “risorse” di essere umani. Quelle cognitive, quelle emotive, quelle mnemoniche, quelle istintive.
Le parole sono lo strumento fondamentale anche nel ruolo di formatrice e facilitatrice. Le scegliamo con attenzione nel progettare la presentazione dei contenuti, lo storytelling di un caso, l’incipit di una esercitazione, la chiusura di impatto di un debriefing. Studiamo i titoli delle slide e le parole chiave che devono sorprendere, attivare, rassicurare, inquietare, conquistare.
Pensiamo con cura a come aprire la nostra sessione, a come presentarci. E infine a come chiudere in bellezza.
Se ci pensate l’impegno di progettare una comunicazione efficace, efficiente, funzionale e che colpisca è analogo a quando si progetta un sito web. Dove le immagini raccontano tantissimo ma le parole devono essere le vestali del messaggio, dello stile che voglio trasmettere, della conversazione che voglio, o meno, aprire.
C’è un aspetto del linguaggio dei siti che da sempre mi affascina, perché è un perimetro di comunicazione ristretto, un po’ nascosto, talmente familiare e quasi marginale da rischiare l’oblio.
Sto parlando di quello che in gergo tecnico si chiama microcopy: sono i microtetesti, appunto, che guidano nella navigazione. I nomi dei pulsanti, i messaggi di conferma o di errore, le voci del menu. Tutto quello che non è il testo principale ma che, di contorno, deve rendere naturale e facile concentrarsi sul testo principale. E, di fatto, farlo brillare. Il microcopy è fatto soprattutto di testi brevi, spesso con pochissimo tempo di visualizzazione. Ma fanno la differenza. Notatelo, la prossima volta che navigate in un sito.
Se su un tasto che apre al seguito di un articolo c’è scritto “continua a leggere” è una neutra azione funzionale alla navigazione, se sullo stesso tasto c’è scritto “inizia a capirne sul serio” il senso del tasto si carica della mia intenzione di lettura.
E quindi quale può essere il microcopy del formatore? In che modo possiamo usare gli spazi di connessione “funzionali” allo svolgimento della nostra sessione come momenti nei quali lasciamo la nostra impronta e creiamo un gancio di memorabilità che rafforza l’apprendimento dei contenuti “hard” della sessione?
Vi racconto un mio microcopy per dare il buongiorno e iniziare la sessione. L’ultima aula nella quale l’ho usato avevo di fronte alcuni manager, il contenuto era una soft skill, obiettivo sviluppare padronanza e replicabilità. Una situazione, so che vi sto sbloccando un sacco di ricordi, nei quali talvolta inizi in un silenzio fatto di sguardi più scettici che curiosi, di impazienza, di dubbio nel timore di stare utilizzando male il proprio tempo prezioso, di tiepida fiducia che possa arrivare qualcosa di veramente nuovo e interessante.
E a tutto questo rispondi con l’intero workshop, ovviamente. A cui comunque devi dare inizio, con un microcopy di saluto e benvenuto.
E io ho iniziato dicendo “Utreia”, e dopo qualche secondo di attesa, mentre si riaccendevano sguardi e si abbandonavano schermi di smartphone, ho aggiunto “dovreste rispondermi “et suseia”.
E ho raccontato che questo è il saluto che si scambiavano i pellegrini nel Medioevo, percorrendo il Camino di Compostela, quando si incrociavano. Utreia, diceva uno, et suseia, rispondeva passandogli accanto lo sconosciuto compagno di cammino.
E ho continuando dicendo, è il saluto più appropriato mentre incrociamo un po’ inaspettatamente i nostri passi in questa occasione di incontro formativo, perché ci fa entrare in due prospettive di ispirazione e di azione di grande interesse.
Utreia “più avanti” et suseia “e più in alto”.
Se ci pensate ogni occasione di apprendimento, ogni momento di facilitazione trasformativa segue queste due direttrici, utreia et suseia.
Utreia, più avanti – perché nell’apprendere aumentiamo le nostre competenze, miglioriamo capacità, sviluppiamo nuove consapevolezze, atteggiamenti, comportamenti. E nel ruolo di formatore facilitiamo l’approfondimento di strumenti e stimoliamo nuove pratiche, più efficienti, più efficaci. Facciamo strada, assieme. Andiamo avanti.
Et suseia, e più in alto - perché ogni scambio apre lo sguardo e arricchisce la sensibilità, perché aumentare le proprie risorse di conoscenza ci fa vedere di più, alza la nostra prospettiva e ci rende anche più responsabili. Da formatori, attiviamo la riflessione su come ogni nuovo tassello di crescita professionale allarghi il perimetro di azione e di impatto e amplii lo spazio possibile di esercizio del ruolo o del compito. Scopriamo nuovi orizzonti. Vediamo cose usuali da un nuovo punto di vista. Saliamo, ci arrampichiamo, assieme. Andiamo più in alto.
Utreia et suseia, pensare al saluto iniziale come a un microcopy ci permette di dare l’imprinting alla sessione. Fa percepire fin da subito la cura. Può essere occasione, come in questo caso, di uno storytelling di senso rispetto al corso e nello stesso tempo di aggancio emotivo. E’ uno straordinario elemento di memorabilità.
Ovviamente a fine corso ho salutato i partecipanti con "Utreia" e la risposta è stata unanime e divertita, "Et suseia".
Credo molto, in generale, al potere e all’impatto delle “piccole cose”. Nella vita in generale, professione compresa.
Nella mia esperienza di formatrice e facilitatrice le considero un elemento fondamentale da progettare per creare connessione, dare forza allo stile e al tono di voce della sessione e per generare memorabilità.
Il microcopy, le piccole cose, servono anche per intrecciare di personale distintività quella neutralità della facilitazione di cui ci dobbiamo vestire se vogliamo, come vogliamo, essere connettori, abilitatori, ispiratori, propulsori invisibili, per lasciare scena e protagonismo ai partecipanti.
Come si fa? Ognuno ha le proprie modalità, non ci può essere “standard” in quello che racconta la diversità.
E tu, quale microcopy che racconta di te inserisci nelle tue sessioni formative?