Investire nel mercato della formazione continua in Italia? (2)

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Riprendiamo il ragionamento sul tema investimenti nel mercato della formazione continua, che abbiamo iniziato  iniziato con la prima parte dell’articolo.


La “non cultura” dell’e-learning

Leva strategica per la diffusione della formazione continua, caratterizzata da interventi su allievi che sono lavoratori occupati, quindi con tempo limitato e notevoli problematiche di orario e spostamenti, dovrebbe essere l'e-learning (o. se preferiamo, digital learning). Qui però ci si scontra tra due visioni contrastanti che difficilmente oggi trovano una conciliazione:

  • La visione delle imprese che la vogliono sostanzialmente per minimizzare l’impatto organizzativo, senza molta attenzione alla sua efficacia rispetto all’acquisizione di competenze.
  • La visione della PA (e spesso dei sindacati) che, al contrario, la contrastano più che altro per evitare che sia solo figurativa e che i lavoratori siano surrettiziamente in produzione durante il corso on line, cosa in questo caso più difficile da verificare.

Inoltre, la conoscenza e la fiducia sulle moderne tecnologie di didattica on line e di sicurezza del dato di tracciamento (block chain, riconoscimento dell’allievo, etc.) è ancora estremamente scarsa e tutto questo crea confusione. Per esempio, molti continuano a parlare di FAD (Formazone A Distanza) e solo da poco distinguono modalità sincrone  da quelle asinctrone, che metodologicamente non potrebbero essere più diverse.

Di più: durante il Covid si è parlato di “teleformazione” (termine che suona così anni ’60) per evitare i usare i termini sopra citati. Questo la dice lunga sulla cultura che permea questo settore.


Diamo i “numeri”

La formazione continua in Italia è un “mercato” difficile da quantificare, anche se, Rapporto INAPP 2023 alla mano, nel 2020 in Italia il 68,9% delle imprese ha erogato formazione ai propri dipendenti. Il tasso di incidenza delle imprese formatrici è pari al 50,2% fra le microimprese e sale al 66% fra le piccole imprese, all’83,4% fra le medie fino al 92,8% fra le grandi imprese. Il divario territoriale Nord-Sud si può stimare in circa 10 punti percentuali.

Personalmente stimo la spesa a circa 4/5 miliardi l’anno, dei quali solo circa il 25% è effettivamente finanziato da soggetti terzi rispetto all’azienda. Questo è dovuto certamente alla scarsa efficacia dell’intermediazione dei soggetti che dovrebbero diffondere questa opportunità, ma anche al fatto oggettivo che le risorse pubbliche sono molto limitate. A puro titolo di esempio, le imprese italiane versano all’INPS lo 0,30% delle retribuzioni per la formazione continua, quando questa quota in Francia è del 1,29%.

Peraltro, solo circa 600 milioni di euro su un versato complessivo di 1,2 Miliardi vanno ai Fondi Interprofessionali e su questi il Governo trattiene per la sua finanziaria (e non per la formazione) 120 milioni, lasciandone quindi poco più di 500 per la formazione, dei quali più della metà restano nelle grandi imprese sotto forma di Conti Formativi Aziendali.

Anche il Fondo Nuove Competenze (FNC), attivo dal 2020 con circa 1 miliardo l’anno (nel 2024 dovrebbero essere 800 milioni), non è dedicato direttamente alla formazione, ma al rimborso del solo costo dei lavoratori che ne usifuiscono e si può stimare quindi empiricamente una ricaduta media indiretta sulla spesa per le “docenze” di un massimo di 300 milioni.

Aggiungiamo, inoltre, che il FNC nel 2023 ha finanziato solo corsi su digitale e green e che questi argomenti rappresentano solo una piccola parte dei fabbisogni di formazione continua, creando anche uno spreco di risorse che sarebbero state più utili per formare su fabbisogni concreti.

A queste cifre si aggiungono circa 130 milioni l’anno da parte delle Regioni, con bandi molto differenti tra loro per regole e contributi.

La sospensione (non si sa se la fine) di Industria 4.0 ha poi tolto nel 2023 una parte importante degli sgravi di cui le imprese hanno fruito negli anni scorsi anche per la formazione sull’innovazione.


Spazi di un “quasi mercato”

C’è quindi spazio per un “grande player” della formazione a livello nazionale che non sia legato, come sono gli attuali “grandi”, anche ad altri servizi come la somministrazione o la consulenza aziendale oppure a reti di rappresentanza sociale?

È una domanda a cui è difficile rispondere, con lo scenario attuale.

Dovrebbe innanzitutto cambiare lo scenario normativo, con leggi chiare soprattutto sul funzionamento dei Fondi Interprofessionali e sulle regole per il finanziamento dell’e-learning.

Inoltre, chiunque offra risorse per la formazione continua dovrebbe integrare la propria offerta con gli altri attori, anche tramite una “cabina di regia” per ottimizzarla - anche a livello territoriale - cercando di superare i particolarismi regionali. Per esempio, è evidentissimo il problema della certificazione delle competenze su profili che sono sostanzialmente gli stessi, ma con standard differenti da regione a regione.


Cinque indicazioni

Per concludere, ecco alcune indicazioni su come il sistema potrebbe rispondere meglio alle esigenze di formazione.

  1. Le regole per l’accreditamento degli enti di formazione dovrebbero evolversi in termini di attenzione alla qualità ed alla affidabilità dell’ente, più che nel conteggio dei metri quadri di aule (la formazione continua, peraltro, si svolge prevalentemente in azienda e solo taramente presso le aule dell'Ente), con regole uguali in tutta Italia per Fondi e Regioni / Provincie Autonome.
  2. Leggi e finanziamenti potrebbero favorire l’aggregazione / federazione dei piccoli Enti di formazione a livello nazionale (con una sostanziale evoluzione dell’ormai vecchia legge 40 del 1987), in modo da superare la frammentazione ed il “nanismo” che affligge molti essi.
    C'è da aggiungere, però, che il “gigantismo” che ne affligge altri, specie di natura sindacale, non produce efficienza ed efficacia ma solo costi che sottraggono risorse agli interventi di qualità sui lavoratori. Purtroppo, anche in questo caso una semplice deregulation del mercato non aiuterebbe, perché in Italia questa modalità crea solo frammentazione ed anarchia, mentre un quadro normativo ed economico chiaro incentiverebbe le aggregazioni abbattendo i costi.
  3. Altro elemento critico è il criterio del contributo gestito in modalità “non profit” tramite farraginosi rendiconti dei costi sostenuti dall’ente erogatore, fortunatamente in via di superamento grazie all’applicazione delle Unità di Costo Standard (UCS) indicate proprio dalla UE come strumento di semplificazione.
  4. A mio personale avviso, dovremmo andare più avanti, accettando anche che gli enti possano avere un margine, ovviamente equo, su quello che fanno, in modo che non siano costretti a gonfiare i budget per poter scaricare qualche costo in più, visti anche i cicli finanziari mediamente molto lunghi dei finanziamenti (ed anche su questi si dovrebbe intervenire).
  5. Resta poi la semplificazione generale delle procedure di richiesta (basta con tutta questa “progettazione”,  - come dicevo in un precedente articolo sui voucher) che devono essere gestite per piccoli interventi molto flessibili ed immediati, in quanto tutte le imprese hanno difficoltà a programmare interventi a lungo termine, specie nello scenario odierno.


Il comitato redazionale

Myriam Ines Giangiacomo

Domenico Lipari

Giusi Miccoli

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