Lo scorso 4 dicembre è stato presentato al Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (CNEL) il Rapporto Censis sulla Situazione Sociale del Paese - anno 2023. In questo articolo ne vediamo alcuni aspetti salienti partendo da una visione d’insieme.
Molte scie, nessuno sciame
Il Rapporto Censis sulla situazione sociale italiana viene redatto a partire dal lontano 1967, offrendo un qualificato strumento di interpretazione del nostro contesto che accompagna puntualmente persone e personalità impegnate in politica, nel giornalismo, nell’imprenditoria, negli studi, nelle scelte di sviluppo economico e sociale, ecc.
Storicamente il Rapporto Censis fotografa la società italiana nei principali aspetti affiorati durante l’anno in corso. È un volume ricco di dati quantitativi e analisi qualitative che rappresentano un’eccezionale fonte di informazioni sulla condizione del sistema italiano.
Il 57° Rapporto si apre con le considerazioni generali che introducono i fenomeni più significativi del Paese narrati attraverso la metafora: “molte scie, nessuno sciame”, là dove lo “sciame” rappresenta il meccanismo che ha caratterizzato il modello di sviluppo del nostro Paese negli ultimi decenni, un disegno senza razionale e senza uno schema rigido, quanto piuttosto mescolando libertà individuali con vincoli collettivi, pur conservando una forte capacità di spinta unitaria e di partecipazione alle questioni sociali.
Questo modello di sviluppo un po’ caotico, come raccontato nel Rapporto, ha garantito il vitale e disordinato crescere del benessere individuale e collettivo. Gli “sciami” si sono dispersi in una sequenza di svariate “scie” fluide a bassa potenza unitaria. Queste linee sottili descrivono una società italiana che si sta disperdendo in mille rivoli di modesto spessore e scarso pensiero collettivo, “scie” votate all’inseguimento di un consumo frettoloso di scosse emotive provocate da episodi contingenti che scioccano lì per lì, ma sono presto sostituite da nuove scosse emotive in un flusso continuo di emergenze da consumare senza fermarsi a riflettere. Con il risultato che gli italiani si sottraggono alla grande partecipazione unitaria e, allo stesso tempo, la nostra classe dirigente e le maggioranze silenziose si sottraggono a un doveroso esame di coscienza.
La diretta conseguenza è una sorta di cecità generalizzata innanzi ai cupi presagi di crisi socio-economica che sembrano mancare nell’agenda delle politiche di sviluppo del Paese o – comunque – appaiono relegate nello sfondo in una sorta di sottovalutazione disinteressata.
I sonnambuli
Ai cupi presagi gli italiani non reagiscono e restano quali “sonnambuli”, apparentemente vigili ma in realtà dormienti per l’insipienza generalizzata di fronteggiare dinamiche evidentemente malsane con efficaci strategie strutturali di medio-lungo termine.
Il principale dato macroscopico indicato nel Rapporto riguarda gli effetti della tendenza regressiva della curva demografica. Gli studi statistici indicano che nel 2050, tra meno di trent’anni, avremo perso 4,5 milioni di residenti e avremo una diminuzione di oltre 9 milioni di persone in età produttiva a fronte di un aumento di 4,6 milioni di persone anziane. Queste dinamiche demografiche se non verranno fronteggiate presto e in qualche modo invertite, annunciano effetti disastrosi per il sistema sanitario, il sistema pensionistico, le attività produttive e le forze lavoro, con ripercussioni calamitose su tutto il sistema Paese. Eppure, il nostro ceto politico e istituzionale è vittima di una miope corsa al voto e una deresponsabilizzazione cronica, così come la società italiana sembra affetta da sonnambulismo fatalistico, sebbene sia seduta su una vera e propria bomba pronta a esplodere per un prossimo annunciato e negativo “boom”.
Questo processo di spopolamento è aggravato dall’emigrazione continua di italiani: negli ultimi dieci anni più di 5,9 milioni di residenti all’estero con un incremento di quasi 1,6 milioni di emigrati, pari ad un aumento del 36,7%. Solo nel 2022 si sono iscritti all’AIRE per espatrio 82.014 italiani e, di questi, 36.125 giovani tra 18 e i 34 anni, per una percentuale pari al 44% del totale emigrante. Tali flussi migratori riguardano, dunque, principalmente le nuove generazioni di italiani che scelgono di andare all’estero per cercare fortuna, come fecero le passate generazioni, verso paesi quali il Regno Unito (il 16,4% di scelte migratorie nell’ultimo anno), la Germania (13,8%), la Francia (10,4%) e la Svizzera (9,1%).
A fronte di tale emorragia di cittadini italiani non corrisponde un altrettanto flusso immigratorio e, oggi, sono solo 5 milioni gli stranieri residenti nel nostro Paese. Ne discende che, con buona pace dei protettorati localistici, nel futuro prossimo avremo sempre più necessità di stranieri disposti a lavorare in Italia per compensare il calo demografico e il flusso emigratorio.
Un Paese bello ma arretrato
Nel parlamentino del CNEL risuona ancora l’eco di una frase detta dal suo attuale Presidente durante la presentazione del 57° Rapporto. La frase, assolutamente condivisibile, suona più o meno così: “Siamo un Paese bello ma arretrato, abbiamo un gran bisogno di manutenzione, siamo vecchi e lo capiamo quando andiamo all’estero”. Certo, è vero che per molti aspetti il Belpaese appare invischiato in tutte le sue arretratezze, così come indicato nelle Considerazioni generali del Rapporto Censis. Eppure, suona un poco stonato il fatto che a dirlo sia proprio chi, in veste di Presidente CNEL, ha recentemente bocciato la riforma del salario minimo – comunemente praticato in quasi tutti i paesi europei più avanzati – rimandando la questione alle contrattazioni sindacali nazionali come negli anni ’70.
Non a caso nel Rapporto viene spiegato come il modello di sviluppo italiano appaia usurato, sebbene non sia ancora chiaramente comprensibile quale nuovo modello vi sia per sostituire quello vecchio. Dai numeri emerge che il mondo del lavoro stia cambiando verso inaspettate e impreviste condizioni in cui il rapporto di forza azienda-lavoratore si stia invertendo e a fare la selezione non sia più l’azienda bensì il lavoratore che sceglie – soprattutto per i più giovani – dove impegnare parte il proprio tempo e le proprie energie. Ma non tutte, sia chiaro. Questo perché anche il rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro si sta modificando. Infatti, il 74,8% dei lavoratori non desidera lavorare di più per consumare di più, abbandonando le logiche dei grandi consumi e non vuole essere nemmeno workaholic; oggi è giusto pensare di più a sé stessi dando spazio ai bisogni esistenziali dell’essere umano come dichiarato dall’80% degli occupati intervistati. Il rovesciamento del ruolo del lavoro apre a un processo di ristrutturazione degli assetti sociali là dove, anche a chi dirige le imprese, viene richiesto di adattarsi a nuovi emergenti equilibri in un rapporto di forza tra impresa e collaboratore che appare orizzontale ed egualitario.
Concludendo
Il Rapporto Censis contiene molte altre informazioni e analisi nei vari ambiti della Società italiana: dalla famiglia alla formazione, dal lavoro al welfare e alla sanità, dal territorio alle reti, ai soggetti e ai processi economici, dai media alla sicurezza e alla cittadinanza. Eppure, in questa sede, sorge doveroso limitarsi ad alcune parziali riflessioni di merito, rinunciando a descrizioni più esaustive.
Per cui, concludendo, ben venga la frammentazione sociale in piccole “scie” se queste concorrono alla sostituzione del modello in essere sin dagli anni ’60 e oramai obsoleto. Eppure, domandiamoci cosa accadrà quando mancheranno la grande partecipazione collettiva e la spinta a fare ciò che solo in grandi gruppi siamo in grado di fare. Che cosa ci sarà dopo? Nel Financial Times viene spesso indicato il Post-neoliberism world, di cui appare l’inconsistenza del paradigma di riferimento. Il sociologo De Masi ha lungamente predicato l’avvento della società post-industriale, di cui già vediamo il superamento verso una società intrecciata con l’evolversi dell’intelligenza artificiale. Nel Rapporto Censis i dati raccolti descrivono un concorrere di spinte verso un nuovo modello di sviluppo non ben definito ma in cui sia assicurato il lasciar essere piuttosto che il lasciar fare, dove vi sia autonomia personale nell’interpretare il mondo del lavoro piuttosto che avere un’identità attraverso il lavoro, dove la coesione sociale è importante fintanto che non significa avere vincoli collettivi. Forse, la società dovrà fare i conti con una nuova dimensione della “solitudine” sia a livello individuale sia a livello di sistema. Eppure, si legge nel Rapporto, le nuove generazioni stanno operando uno scarto deciso rispetto al modello sociale che ha disegnato il nostro sviluppo. Per cui gestire la cresciuta e crescente complessità del presente e del prossimo futuro spetta alle giovani generazioni, forse le migliori di sempre.