Le note che qui propongo hanno lo scopo di stimolare la riflessione sul senso da attribuire all’idea di partecipazione, quale che sia il contesto al quale tale concetto tende ad essere associato. Lo farò avendo come sfondo concettuale quello dell’analisi organizzativa e come focus l’ipotesi secondo cui nel discorso sulla partecipazione, occorra assumere come centrale la logica dell’attore (individuale e collettivo) così come delineata dall’approccio strategico allo studio delle organizzazioni (M. Crozier, E. Friedberg, Attore sociale e sistema, Milano, Etas, 1978; E. Friedberg, L’analisi sociologica delle organizzazioni, Roma, Formez, 1986; D. Lipari, Dinamiche di vertice. Frammenti di un discorso organizzativo, Milano, Guerini, 2007).
Ambiguita' di un concetto
Dirò preliminarmente che siamo forse inconsapevolmente influenzati (almeno i meno giovani di noi) dalle correnti ideologiche degli anni ‘70 e ‘80 dell’altro secolo che assimilavano l’idea e la pratica della partecipazione alla libertà dei soggetti e dei gruppi. Ce lo ricordano molto bene i noti versi di un vecchio brano di Giorgio Gaber in cui appunto si fa coincidere la libertà con la partecipazione:
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Questa visione rifletteva (e in parte riflette ancora oggi per un effetto di trascinamento semantico inerziale) la sensibilità indotta dai movimenti giovanili e studenteschi di quegli anni legata tra l’altro al bisogno, largamente diffuso nelle società che si avviavano a prendere congedo dal modello industrialista dominante, di rapportarsi in modo diverso alla difficoltà di fronteggiare processi decisionali caratterizzati da forme inedite di complessità che cominciavano a far emergere una molteplicità di interessi tra i quali diventava necessario mediare.
E tuttavia, nonostante la popolarità di questo termine che ci portiamo dietro fin da allora a prescindere dall’ambito di riferimento — sia che la partecipazione riguardi una data organizzazione, sia che riguardi le relazioni tra una pubblica amministrazione e i soggetti interessati alle sue politiche — l’essenza di questa nozione rimane comunque vaga e fondamentalmente ambigua.
Non si puo' non-partecipare
L’uso appropriato del concetto di partecipazione richiede innanzitutto di uscire dall’indeterminatezza e di specificare ciò che si intende per "partecipazione" a partire dal superamento del fastidioso equivoco che consiste nell’assunto implicito secondo il quale, parlando di “partecipazione", si ritiene che possano coesistere, sia pure in opposizione tra loro, realtà in cui ci sarebbe partecipazione e altre in cui invece essa sarebbe esclusa (o espressamente negata). Occorre uscire dal malinteso di una simile dicotomia che delinea una visione distorta della realtà perché, quale che sia il “campo” in cui si inscrive il nostro agire di soggetti sociali e quale che sia il nostro livello di consapevolezza (e perfino di volontà), noi siamo sempre immersi in reti relazionali che inevitabilmente implicano un certo grado di partecipazione. In quanto attori sociali, volenti o nolenti, siamo sempre coinvolti nelle dinamiche della vita dei gruppi ai quali apparteniamo. Quindi è esclusa la possibilità della non-partecipazione. Perfino i casi estremi in cui si decide di estraniarsi allontanandosi dai processi relazionali di un gruppo sociale configurano una scelta paradossale di partecipazione: la scelta di non agire. Ma il non-agire è una forma di azione che lascia campo libero agli altri: decidere di non partecipare al voto per protesta, ad esempio, è una scelta che di fatto avvantaggia coloro i quali si intenderebbe danneggiare e quindi è una forma di partecipazione (anche se involontaria) che spesso diventa anche autolesionistica.
Partecipazione come agire strategico
Posto dunque che non si possa sfuggire al vincolo sociale della partecipazione e chiarito il fatto che la non-partecipazione è effettivamente una forma sui generis di partecipazione, occorre sottolineare come il comportamento degli attori, in quanto esito di scelte corrispondenti alle loro situazioni concrete e ai loro obiettivi contingenti, è sempre libero e attivo (persino nelle situazioni più costrittive), ma anche mutevole in rapporto alle dinamiche relazionali che caratterizzano il contesto d’azione. Proprio per questo tratto distintivo delle condotte sociali, la partecipazione, in quanto forma specifica dell’agire strategico degli attori, può assumere una molteplicità di configurazioni: non c'è un solo modo di partecipare, ma ce ne sono tanti ed essi corrispondono alle varie possibili scelte strategiche che gli attori adottano per perseguire i loro scopi. Infatti, nella situazione data e in rapporto alle risorse di cui dispongono e ai vincoli (normativi, ambientali, ecc.) del campo d’azione, gli attori scelgono di volta in volta i comportamenti da adottare, ossia il modo in cui decidono di partecipare. Un simile punto di vista rovescia decisamente la logica dei versi di Gaber citati all’inizio: la libertà non è partecipazione, ma è scelta del modo in cui partecipare.
In quanto fenomeno irriducibilmente cangiante proprio perché legato alle scelte mutevoli e contingenti degli attori, la partecipazione può assumere diverse configurazioni.
Tralasciando le forme estreme di partecipazione quali sono ad esempio quella emotivamente fondata (identificazione con un leader, un'ideologia o una fede religiosa), oppure quella legata alla scelta di rifiutarsi di partecipare, potremmo distinguere due grandi modalità partecipative: la partecipazione per assimilazione e la partecipazione negoziata (qui seguo la prospettiva suggerita da Erhard Friedberg in L’analisi sociologica delle organizzazioni, Roma, Formez, 1986). Vediamole brevemente.
La partecipazione per assimilazione
E' sostanzialmente legata al modello dirigista al quale molte amministrazioni pubbliche e molti imprenditori sembrano pensare quando auspicano "più partecipazione" da parte dei loro dipendenti. In sintesi, il ragionamento implicito di questo approccio è più o meno il seguente.: ogni impresa collettiva presuppone il raggiungimento di un consenso tra i diversi partecipanti, i quali devono essere indotti a comprendere che, al di là degli interessi e degli scopi di ciascuno, hanno un interesse comune che travalica quelli particolari. E per perseguirlo è necessario mettere da parte divergenze e conflitti per dedicarsi al perseguimento dell’interesse di tutti. Ed è attraverso la partecipazione, da sollecitare e incoraggiare mediante appropriate politiche del personale, che si dovrebbe trovare l’unità. Una simile prospettiva si mostra del tutto priva di fondamento proprio perché nella dinamica relazionale che si sviluppa nelle organizzazioni, gli individui e i gruppi difficilmente rinunciano al loro spazio di autonomia specie se non “vedono” nell’adesione ad uno scopo comune da condividere un vantaggio concreto. Di più: poiché essi sono portati a piegare ai loro obiettivi ogni risorsa disponibile (e di conseguenza difficilmente si può conseguire adesione allo scopo comune), la tensione tra interessi particolari non sempre convergenti vanifica ogni sforzo tendente alla condivisione di una prospettiva unificante a meno che (caso più unico che raro) non si verifichi la condizione di una partecipazione del tutto disinteressata. Risulta evidente quindi che le politiche del personale orientate a conseguire la partecipazione degli attori e la loro adesione agli obiettivi dell’insieme (è bene sottolineare che si tratta sempre di decisioni di vertice) siano (quasi) sempre destinate all’insuccesso: gli individui e i gruppi potranno apparentemente accettare una forma in qualche modo imposta di partecipazione (che di fatto si configura nei termini di una mera subordinazione), ma lo faranno in modo passivo, senza cioè garantire l’impegno richiesto e necessario al perseguimento dei fini comuni. In effetti, in assenza di uno spazio per esprimere opinioni e avanzare proposte coerenti con i loro interessi e nell’impossibilità di boicottare esplicitamente la strategia dei vertici, gli attori daranno il loro contributo passivamente e senza il minimo entusiasmo. In altri termini scelgono di adottare una strategia elusiva. Per superare un simile impasse, è bene che le politiche del personale vadano oltre gli approcci manipolatori e dirigistici tendenti all’assimilazione degli individui agli scopi “generali” ed accettino un dato di realtà irriducibile: coinvolgere gli attori in un processo di partecipazione richiede una visione e conseguenti politiche capaci di sostenere la necessaria mediazione tra gli interessi comuni e gli interessi dei singoli. Solo così è possibile ottenere il coinvolgimento e la partecipazione degli attori.
La partecipazione negoziata
Per illustrare questo tipo di partecipazione, è necessario partire dal presupposto che esso si sviluppa all'interno di una struttura relazionale e di potere già esistente. Ogni individuo e ogni gruppo valuta attentamente la sua posizione, le sue risorse e le opportunità di ottenere vantaggi, considerando il rapporto con questa struttura di potere, prima di decidere di accettare di coinvolgersi e impegnarsi in un’impresa che richiede partecipazione. Poiché, come si è visto, la partecipazione richiede impegno e assunzione di responsabilità, essa non è mai disinteressata o gratuita. La richiesta dei vertici di un’organizzazione a soggetti e gruppi di aderire alla messa a punto di politiche o anche di micro-decisioni che li riguardino direttamente non è l’elargizione di un dono, ma la “chiamata” ad un impegno tanto più rischioso e denso di incognite quanto più travalica i compiti consueti di ciascuno (per lo più formalmente attribuiti). Coinvolgersi in un’esperienza di partecipazione (un nuovo progetto, ad es.), ha un prezzo che corrisponde alla messa in discussione del margine di libertà d’azione di cui gli attori dispongono: decidere di impegnarsi significa scegliere di correre il rischio di rimanere vincolati in una situazione diversa da quella nota. E dunque il “calcolo” strategico dell’attore lo porta a scegliere di rischiare solo se pensa di essere nella condizione di mantenere quel margine di libertà grazie al quale può influire sulle scelte e le decisioni legate all’issue attorno alla quale gli si chiede partecipazione. Se invece l’attore ha la percezione che la linea su cui si chiede la partecipazione sia stata già definita in partenza, è altamente probabile che la sua scelta sarà quella di sottrarsi e di mantenere le “mani libere” conservando intatto il margine di libertà di cui dispone (eventualmente anche allo scopo di criticare le decisioni via via assunte).
I vertici di un qualsiasi insieme organizzato che vogliano ottenere la partecipazione di individui e gruppi ad un loro progetto, dovrebbero riconoscere l’autonomia d’azione degli attori e prendere atto della sua irriducibilità: a queste condizioni – che implicano la comprensione del fatto che anche sul terreno della partecipazione non esiste una one best way, ma diversi modo di concepirla, conseguirla e praticarla – è possibile attivare politiche partecipative. Occorre, in altri termini, istituire uno spazio entro cui ciascuno possa garantirsi la chance negoziale di perseguire i propri obiettivi. Va da sé che in questo caso bisognerà mettere in atto rilevanti capacità di mediazione in quanto la soluzione emergente dovrà necessariamente trovare un accordo tra punti di vista non sempre convergenti. E le possibilità di riuscita della partecipazione negoziata sono integralmente racchiuse nel riconoscimento del fatto che gli attori coinvolti non siano del tutto sprovvisti di “carte da giocare” e di risorse negoziali da mettere in campo.
Per concludere
Uscire dall’ambiguità implicita nel concetto di partecipazione significa da un lato riconoscere la libertà degli attori e la loro capacità strategica di decidere di volta in volta i termini del loro coinvolgimento, ossia della loro partecipazione ad un’impresa; dall’altro (sul versante dei vertici organizzativi) comprendere che è di gran lunga più produttiva, anche se più faticosa, la via negoziale alla ricerca del consenso e quindi della partecipazione.