La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi.
(Carl von Clausewitz, 1832, Vom Kreige)
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Siamo formatori. Descriviamo il nostro “prodotto” come apprendimento, cioè nuove competenze: sapere, saper fare, saper essere. Ma quello che vogliamo veramente ottenere è più profondo: efficacia/efficienza per le aziende e benessere per le persone. Che significa essere (non solo sentirsi) una parte attiva, consapevole e rispettata di un’organizzazione che a sua volta ha un’utile funzione sociale.
È il motivo per cui, nelle dinamiche e nei conflitti sociali, siamo dalla parte dei “buoni”, perché spingiamo dalla parte giusta.
Solo che, per l’efficacia/efficienza delle aziende e il benessere delle persone, contano, come e più del nostro lavoro, le scelte organizzative, l’ambiente socio-economico, le tecnologie, i grandi eventi geopolitici e climatici. E le norme di legge. Tutti aspetti su cui di solito non abbiamo modo di incidere.
Fra qualche settimana, invece, sì: andremo alle urne per modificare (o lasciare come sono) cinque articoli di legge con un punto comune: hanno a che fare con l’inclusione e il benessere organizzativo.
Sono i troppo poco famosi cinque referendum di giugno. Ecco di cosa si tratta.

Uno. Reintegro dopo un licenziamento illegittimo
Nelle aziende tutti a ripetere: “Le persone sono le nostre risorse più importanti!”. Peccato che il rapporto di potere tra queste risorse così importanti e i datori di lavoro sia da sempre fortemente squilibrato a favore di questi ultimi. Perché l’azienda può fare a meno di un lavoratore (“Nessuno è insostituibile”, altro slogan), mentre il lavoratore può avere problemi di sopravvivenza senza l’azienda che gli paga lo stipendio.
Ed è per questo che la legge tende a fornire qualche contrappeso. Infatti il lavoratore può andarsene quando vuole, mentre – almeno in Italia - l’azienda può licenziare un lavoratore solo per giusta causa (per esempio, se truffa o danneggia l’azienda anche non facendo bene il suo lavoro) o giustificato motivo (per esempio, se una crisi di mercato obbliga a ridurre la produzione per non mettere l’azienda stessa in pericolo).
E se un’azienda con più di 15 dipendenti vuole ridurre la sua forza lavoro non perché lavora in perdita, ma perché non guadagna abbastanza per gli standard decisi dal Consiglio di Amministrazione? O se vuole liberarsi di lavoratori un po’ troppo critici con la Direzione? O, peggio, se vuole forzare il consenso instaurando una comunicazione interna basata su “O ci stai o te ne vai?”
A quel punto, il lavoratore può rivolgersi al giudice che, nella migliore delle ipotesi, gli dà ragione. Che succede? Oggi dipende dalla data di assunzione. Se è avvenuta dopo il 7 marzo 2015 il giudice può disporre un indennizzo, ma non annullare il licenziamento.
Il referendum chiede di abolire questo vincolo e tornare alla norma precedente, dando la possibilità di ottenere, oltre al risarcimento, anche il reintegro nel posto di lavoro.
Due. Indennità (non elemosine) per un licenziamento illegittimo
Nelle aziende fino a 15 dipendenti, la storia è diversa: in caso di licenziamento illegittimo il diritto al reintegro non c’è mai stato. Cosa per certi versi comprensibile nelle piccole realtà in cui il datore di lavoro non è una società per azioni, ma un individuo in carne ed ossa e i rapporti personali contano. Infatti, al lavoratore licenziato spettava (e spetta ancora) solo un indennizzo.
Il problema è “quanto”. Nella normativa attuale il massimo sono sei mesi di stipendio. Che sono pochi.
Il referendum chiede di abolire questo limite per lasciare al giudice del lavoro la possibilità di fissare un indennizzo anche maggiore, tenendo conto di fattori come l’età, la situazione familiare, le risorse dell’azienda (perché ci sono anche aziende con pochi dipendenti e fatturati stellari).
Tre. Contratti a termine, ma motivati
Sono più di due milioni i lavoratori con contratto a tempo determinato.
Non ho nulla contro l’idea di lavorare per portare a termine un progetto e poi amici come prima. Va bene se è una libera scelta, se il rapporto è tra cliente e fornitore, se le modalità di lavoro e la retribuzione vengono negoziate liberamente.
Ma se quello a termine è il lavoro dipendente, quasi sempre il lavoratore accetta perché non può farne a meno, mentre l’azienda ha il coltello dalla parte del manico. Conosco molti (me compreso) che amano il lavoro autonomo, ma nessuno che preferisca un contratto a tempo determinato a quello a tempo indeterminato.
Un lavoro dipendente a termine ha senso quando l’azienda deve affrontare picchi di lavoro, come per la prodizione di uova di Pasqua, ma c’è la tendenza ad abusarne, anche perché oggi non è nemmeno richiesta una motivazione per i contratti fino a 12 mesi.
Il referendum punta a ostacolare questa prassi, ripristinando la necessità di una motivazione scritta (eventualmente impugnabile) per ogni assunzione a termine, invece che a tempo indeterminato.
Come ostacolo non è un granché, ma è qualcosa.

Quattro. Lavorare in sicurezza
Le statistiche sono impietose e la cronaca pure: non c’è giorno senza morti sul lavoro (per non parlare delle malattie professionali che però non si vedono subito).
Incidenti, morti e malattie che non riguardano tutti (non i formatori, per dirne una), ma si concentrano in settori come l’industria, l’edilizia e la logistica. E quasi sempre si scopre che la tragica fatalità non c’entra niente. Mancata formazione, normative ignorate e sistemi di protezione rimossi per aumentare la produttività. Invece di “incidenti”, sarebbe ora di chiamarli “omicidi sul lavoro”.
Di chi è la responsabilità?
Di solito c’entra il datore di lavoro, ci dice il Decreto legislativo 81, il Testo unico sulla sicurezza. Ma che succede nelle lunghe catene di subappalti che, per dirne una, nell’edilizia sono la normalità? Qui capita che il committente sia una grande azienda, o magari una Pubblica Amministrazione, l’azienda appaltatrice sia un colosso delle costruzioni, ma il lavoro venga svolto effettivamente dai dipendenti di una miriade di aziendine che nascono e muoiono dalla sera alla mattina. Aziendine che non brillano per l’attenzione alla sicurezza e che, spesso e volentieri, amano il lavoro nero.
Se succede qualcosa (e ogni giorno succede) chi è responsabile?
Oggi committenti e appaltatori possono scaricare la responsabilità sull’ultimo livello della catena dei subappalti. Tutto grazie a poche righe che non erano presenti nella versione originale del Testo unico: “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.” Risultato: se un muratore che lavora in nero per un’azienda fantasma in sub-sub-subappalto cade dal quinto piano nell’esercizio delle sue funzioni, il committente può limitarsi alle lacrime di coccodrillo, perché – ovviamente - il lavoratore è stato vittima di un “rischio specifico”.
Il referendum mira a ripristinare la responsabilità del committente e dei livelli superiori della catena di subappalti, rendendoli tutti corresponsabili in solido in caso di incidente o malattia professionale. Spingendoli a interessarsi davvero della sicurezza.
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Cinque. Nuovi cittadini
Italiani si diventa. E solo per qualche perversione sociopolitica si può pensare che i fattori etnici e genetici siano determinanti. Ricordo solo che il Sant’Agostino di cui tanto si parla era nordafricano e che Gigi Riva è nel pantheon dei Sardi anche se era nato in provincia di Varese.
È bellissimo vedere ragazzi dai tratti africani o asiatici parlare fluentemente italiano e romanesco. Infatti sono italiani e l’Italia è spesso l’unico paese che conoscono. Ma non sono considerati tutti italiani per la legge. La cittadinanza non è un titolo onorifico ma sostanziale: vuol dire diritti come votare e partecipare ai concorsi. Gli obblighi, invece, ci sono sempre.
Oggi la cittadinanza si può richiedere dopo 10 anni di permanenza continuativa in Italia, dimostrando di conoscere l’italiano, disporre di un reddito (cioè di un lavoro) e rispettare le leggi. Poi ci vogliono altri 3 anni per ottenere risposta. Non ci vuole molto a capire che significa vivere per 13 anni come cittadino modello e nel frattempo sentirsi in un limbo di diritti limitati. Quanti di noi, se venissero trattati così, ci metterebbero molto meno di 10 anni per sentire il mondo nemico e comportarsi di conseguenza?
Il referendum ha l’effetto di ridurre questa attesa a 8 anni (5 più 3 per ottenere risposta), allineando l’Italia a molti altri Paesi europei.
Un intervento limitato, ma essenziale
Intervenire con referendum abrogativi non è come scrivere nuove norme. È un intervento che ha dei limiti, ma è per molti può fare la differenza.
Se vediamo i cinque referendum nell’insieme, capiamo che è in gioco la cultura del lavoro, che non può che essere una cultura dei diritti, della dignità, della partecipazione.
Come può esserci benessere organizzativo quando si lavora appesi a un filo, sotto costante ricatto, in costante pericolo o trattati da cittadini di serie B?
Vuol dire che l’8 e il 9 giugno la nostra missione potremo svolgerla fuori dall’aula. Perché, parafrasando Von Clausewitz, “il referendum non è che la continuazione della formazione con altri mezzi”.