Oltre la gerarchia: professionalismo, potere, solidarietà locale nelle forme organizzative del post-industriale

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Il termine gerarchia, come suggerisce la sua forma originaria (1), evoca l’idea di un ordine garantito ed amministrato da qualcuno che, in un gruppo riunito per attuare qualcosa di coinvolgente e impegnativo (come, ad esempio, la celebrazione di un rito, la realizzazione di un artefatto o la conduzione di una battaglia), occupa una posizione sovraordinata rispetto agli altri (e dagli altri riconosciuta).  Questa formulazione, che travalica l’ambito di azione dal quale ha origine (le funzioni religiose) per estendersi all’intera gamma delle pratiche sociali, consente di associare al concetto di gerarchia, quello di catena del comando che dell’idea di gerarchia rappresenta la manifestazione empirica più evidente e densa di significato. Richard Sennet ha dedicato al tema della «catena del comando» gran parte di un capitolo del suo saggio del 1980 sull’autorità  recentemente riproposto in italiano (2) per mostrare come questo principio ordinatore sia gradualmente penetrato dal suo originario campo di applicazione, la pratica della guerra (3), nell’intero tessuto della vita sociale fino a diventare pervasivo e, soprattutto, istitutivo delle principali forme di esercizio del controllo dell’ordine sociale. Lo squilibrio e la disparità che il principio gerarchico comporta costituisce nella prospettiva di Sennet, «l’architettura del potere» la cui essenza è data dalla sua forza riproduttiva («A controlla B, B controlla C facendo proprio il comando di A, C controlla D ripetendo il comando di B e così via») (4). Il trionfo assoluto del principio gerarchico incarnato dalla catena del comando (5), coincide con l’affermarsi nel mondo occidentale della fabbrica taylor-fordista che, attraverso l’imperativo della razionalizzazione tecnica, ne traduce i fondamenti in metodo «scientifico», in cultura pratica dell’organizing, in ideologia e perfino in senso comune (6).

Il citato lavoro di Sennet, che ripercorre le traiettorie lungo le quali il principio pratico dell’ordine gerarchico si è venuto precisando e concretando in ogni ambito della vita associata (dalla guerra, alla politica, dalle relazioni economiche, alla produzione), s’interroga, al culmine di un’analisi minuziosa, sul modo in cui, finalmente, sia possibile spezzare i vincoli (o almeno attenuare il peso oppressivo) della gerarchia e pervenire ad una qualche forma di liberazione da questo tipo di dipendenza. Porsi una domanda del genere, oggi, rischia di apparire ingenuo e comunque non ha più lo stesso senso che poteva avere ancora trent’anni fa: pur nella consapevolezza del fatto di essere immersi in mondi sociali in cui le dinamiche del dominio (politico, economico, mediatico, ecc.) hanno cambiato forma (7) senza tuttavia attenuare la loro cogenza e in molti casi la loro violenza, non possiamo non notare i molti segnali che ci portano a ritenere che nelle dinamiche della vita organizzativa contemporanea la ricomposizione dell’ordine, ovvero le funzioni di coordinamento e controllo, siano sempre meno assicurate dalla gerarchia. Anzi, laddove essa persiste è del tutto incapace di generare effetti di cambiamento e sviluppo. L’integrazione organizzativa per via gerarchica è seriamente messa in questione da una varietà di fenomeni che tendono a delineare una situazione del tutto nuova. Uno di essi s’impone su tutti: la rapidità con cui si producono le innovazioni tecnologiche come conseguenza dei processi continui di strutturazione e destrutturazione di ambiti settoriali e di mercati a scala sia locale che globale, è un potente generatore di incertezza; e questa dimensione dell’agire (prima quasi sconosciuta nelle imprese tradizionali che facevano della stabilità il loro principale punto di forza), nella misura in cui caratterizza ogni ambito della vita organizzativa delle aziende maggiormente evolute (si pensi a quelle che si occupano di biotecnologie, di microelettronica e di comunicazione), richiede capacità di dare risposte rapide e flessibili alle variazioni imposte incessantemente dal dinamismo dei contesti di riferimento. Si tratta con tutta evidenza di necessità assolute e vitali che reclamano l’attenuazione – fino al definitivo deperimento – della logica della gerarchia. Al tempo stesso, il fenomeno appena evocato, richiede attenzione massima ai processi di produzione e riproduzione delle conoscenze divenute, nel contesto della competizione globale, il bene primario di ogni organizzazione; con una implicazione cruciale: la centralità degli attori, di ogni attore, e il valore potenzialmente decisivo della loro capacità di azione si traduce in immediata perdita di senso della gerarchia che diventa un vincolo burocratico e un freno allo sviluppo e all’innovazione.

Su questo terreno di analisi vorrei segnalare come, nelle dinamiche della vita organizzativa, la logica della ricomposizione e dell’integrazione per via gerarchica risulti in netto declino. Il mio ragionamento è focalizzato su tre assunti solo apparentemente distinti l’uno dall’altro.


Professionalismo

Il primo, mette in evidenza come la cifra distintiva delle organizzazioni maggiormente esposte alle sfide della competizione e dell’innovazione (che spesso sono sfide per la loro stessa sopravvivenza) sia il ruolo dominante della conoscenza incorporata negli attori organizzativi: in questo quadro il professionalismo, in quanto risorsa cruciale della dinamica di produzione e di riproduzione della vita organizzativa e stile di lavoro fondato sull’autonomia e sulle libere associazioni – prevalentemente informali – tra gli attori, costituisce il fondamento del modello «eterarchico» (8), il modello cioè che consente di  liberare le pratiche organizzative dalle gabbie burocratiche e dai vincoli della gerarchia.

La cultura pratica del lavoro mette in evidenza la centralità del ruolo dei «professionisti» che ormai interessa uniformemente un gran numero di organizzazioni nella misura in cui le imprese, oggi, sono sempre più dei dispositivi di apprendimento – e lo sono tanto più, quanto maggiore è diventata la rilevanza dei saperi applicati. Inoltre, poiché la conoscenza è inseparabile dai soggetti che la posseggono (9), risulta evidente come i professionisti emergano oggi come la risorsa principale delle organizzazioni. Da questo punto di vista, occorre prendere congedo da una concezione fondata su routine professionali legate a saperi validi per archi temporali lunghi e spesi in un’attività che dura tutta la vita lavorativa,  per rendersi conto del fatto che, oggi, incertezza, mobilità, libertà, apprendimento continuo (contrapposti a sicurezza, routine, gerarchia, conoscenze statiche) sono i tratti distintivi del lavoro professionale ai quali, in un modo o nell’altro, è vincolata la fisionomia sociologica dei knowledge workers. Per i knowledge workers il modello professionale alternativo a quello classico è quello descritto da Donald Schön nel suo Il professionista riflessivo (10): è quell’operatore che, nell’agire professionale, pratica attitudini riflessive sulla sua stessa azione, mantiene un contatto costante con ciò che fa e grazie a questo atteggiamento apprende dall’esperienza rimodulando ed accrescendo il bagaglio delle sue conoscenze. Niente di più vicino alle esperienze ordinarie e quotidiane di lavoratori della conoscenza. Solo che, nella gran parte dei casi, esse sono irriflessive, quasi-automatiche. Un modo consapevole di interpretare il ruolo professionale richiederebbe quella «svolta riflessiva» (11) di cui parla Schön che delinea una prospettiva secondo cui i lavoratori della conoscenza dovrebbero essere in grado di arricchire  continuamente i loro saperi attraverso una relazione speciale con la pratica: si tratta una relazione che consente di dialogare sempre con ciò che si fa, consente di apprendere dalla pratica stessa, consente, cioè, di risolvere problemi, di apprendere dagli errori, dalle insufficienze del bagaglio dei saperi alimentandolo costantemente e re-inventando le routine – le quali racchiudono, come è noto, bacini più o meno ampi di conoscenze codificate.

E’ con questa nuova dimensione dell’agire professionale tipica delle organizzazioni maggiormente evolute che ci si deve confrontare per comprendere i processi dell’organizing contemporaneo.

Come sottolinea Gagliardi (12), mano a mano che le organizzazioni si trasformano da «gabbie di ferro» (13) – costrittive e al tempo stesso protettive – in insiemi liquidi, cangianti e provvisori, esse perdono la loro tradizionale capacità di orientare l’azione individuale e sociale. Per conseguenza la nuova identità degli attori non deriva più dall’essere membri di una data organizzazione, ma dall’appartenere a reti più o meno ampie basate sul riferimento ad identità professionali omogenee variamente etichettate (come «reti basate sulla pratica» (14), per identificare quella che travalicano la singola organizzazione; oppure come «comunità di pratica» (15), per descrivere quelle legate a micro contesti organizzati). La supremazia delle professioni tende a delineare come configurazione organizzativa emergente l’eterarchia che può essere descritta come «una evoluzione o una versione radicale della forma network (…) che esprime una logica (…) nuova che non è quella del mercato né quella della gerarchia» (16). L’eterarchia infatti (contrariamente al mercato basato su relazioni indipendenti e contrariamente alla gerarchia basata su relazioni di dipendenza) si fonda su logiche di interdipendenza orizzontale. Nelle configurazioni eterarchiche, «l’innovazione è decentrata, l’intelligenza è distribuita, il compito di esplorare (nuovi mercati, nuovi prodotti, nuove combinazioni produttive) (…) è diffuso in tutta l’organizzazione» (17). L’insieme di questi fenomeni tende ad enfatizzare l’interdipendenza tra le unità organizzative in un’ottica in cui la gestione dell’interdipendenza non è governata dai meccanismi tradizionali del coordinamento gerarchico, ma dalle forme più semplici dell’adattamento reciproco supportate dalla prossimità comunicativa resa possibile dalle nuove tecnologie informatiche.

Potere

Il secondo assunto tematizza il potere come fenomeno ontologico della dinamica organizzativa (18) che si riproduce continuamente a prescindere da ogni regola ufficiale e che consente agli attori di eludere – e dunque di ridimensionare e talvolta perfino neutralizzare – il ruolo della gerarchia.

Il potere è una dimensione irriducibile della vita organizzativa, anche se essa è per lo più ignorata o rimossa o interpretata in modo distorto (in genere nei termini della dipendenza verticale). Per cogliere pienamente la crucialità del potere e la sua caratteristica di fenomeno diffuso, occorre liberare questa nozione dai tanti pregiudizi negativi ed assumerla come un tratto inevitabile che riguarda tutte le relazioni sociali.

Da questo punto di vista, il potere (19) non è un attributo del soggetto, né un «qualcosa» di cui sia dato il possesso, e neppure l’emanazione di una struttura di autorità, ma è essenzialmente una relazione.  È, cioè, rappresentato dagli scambi negoziati che gli attori sviluppano concretamente nella vita organizzativa di tutti i giorni indipendentemente dai dispositivi formali che delimitano e vincolano il ruolo e i compiti di ciascuno (e in questo senso dunque prescinde del tutto dalla catena gerarchica). Come argomenta Erhard Friedberg (20), per quanto dettagliato sia l’organigramma e quale che sia il grado di raffinatezza della regolamentazione interna, è impossibile eliminare del tutto l’imprevedibilità del comportamento degli individui e dei gruppi all’interno dell’organizzazione. Essi hanno (e conservano) sempre un margine di libertà che nessuno potrà mai controllare e che utilizzano nel perseguimento delle loro strategie.

C’è da aggiungere che le relazioni di potere (evidentemente informali e il più delle volte semiclandestine perché si sviluppano all’ombra delle regole ufficiali) configurano una modalità di funzionamento dell’organizzazione che spesso è assai diversa da quella prevista dal disegno ufficiale. Queste relazioni, infine, nella misura in cui si stabilizzano nel tempo, sedimentano interdipendenze durevoli e, dunque, consolidate strutture di potere. Esse, quale che sia la soluzione organizzativa adottata, esistono sempre (e mutano in continuazione) poiché nascono come conseguenza di bisogni cogenti. Occorre riconoscere tale dato di realtà e coglierne il tratto dirompente rispetto alle logiche vetero-gerarchiche.


Solidarieta' locale

Il terzo assunto, infine, invita a guardare all’esperienza delle «comunità di pratica» (21) come ad un caso esemplare di modalità lavorativa che sa fare a meno della gerarchia.

La comunità di pratica può essere interpretata come un’aggregazione informale di attori che, nell’organizzazione, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni nel cui ambito sviluppano solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici e linguaggi e generando, per questa via, forme di strutturazione dotate di tratti culturali peculiari e distintivi. In genere, nelle organizzazioni, le comunità di pratica nascono a partire dai problemi che la pratica sempre genera e rispetto ai quali il repertorio delle risposte consolidate e disponibili, che costituisce il sapere collettivo dell’organizzazione, non è sufficiente. Nella gran parte dei casi sono problemi che derivano dalla distanza tra processi programmati e processi d’azione concreti (22): è difficile distinguere tra le prescrizioni che sul piano formale definiscono i processi di lavoro e le modalità di funzionamento dell’insieme, da un lato, e, dall’altro, il modo effettivo con cui, sul campo, gli attori traducono in pratica le prescrizioni sulle modalità di esecuzione. In genere si pensa che ci sia (ci debba essere) una consonanza tra ciò che si decide in sede di pianificazione dei processi e ciò che avviene in sede di esecuzione. In realtà, l’esperienza ci dice che le cose stanno in maniera diversa perché esistono due punti di vista in continua tensione tra loro: quello esterno al processo che adotta un’ottica top-down  e si esprime attraverso indicazioni prescrittive sulle modalità di esecuzione dei compiti; quello interno al processo che assume un’ottica  orizzontale in base alla quale gli operatori, nel cercare il senso di ciò che fanno, più che ai superiori gerarchici ed agli schemi procedurali sull’esecuzione dei compiti di lavoro, guardano alla loro esperienza e al gruppo di colleghi più affini. Gli operatori affrontano e risolvono da soli (cioè tra di loro) i problemi e gli imprevisti che l’esecuzione sempre genera. Prossimità comunicativa, solidarietà davanti ai problemi da risolvere, informalità relazionale e de-gerarchizzazione dei rapporti costituiscono i tratti distintivi dei gruppi locali al lavoro. Il loro riconoscimento – nei casi in cui si è effettivamente realizzato – ha contribuito allo sviluppo di forme organizzative più fluide e comunque capaci di esaltare il contributo degli attori e al tempo stesso di generare valore aggiunto soprattutto sul versante della produzione di conoscenze innovative.


Concludendo

Le tre dimensioni dell’organizing che ho qui sommariamente cercato di descrivere possono costituire – nel loro intreccio – una chiave interpretativa di un certo interesse per cercare di esplorare alcune caratteristiche che assume oggi la dinamica della vita organizzativa nelle quali è possibile scorgere rilevanti indizi di un superamento delle logiche tradizionali della gerarchia.



Note


(1) Deriva dal tardo-greco hierárchēs , ovvero capo (da árchein  = comandare) delle funzioni religiose (hierái da hierós = sacro).

(2) R. Sennet (1980), Autorità, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

(3) «… la catena del comando – scrive Sennet – ha le sue origini storiche nella guerra... [ed ha trasformato] le tribù, che prima si azzuffavano spontaneamente, in eserciti. La catena del comando ha disciplinato la violenza spontanea dei guerrieri… [grazie anche] alla capacità razionale di predisporre una strategia» (Ibidem, p. 152).

(4) Ibidem, p. 151.

(5) Ma anche da quello complementare dell’unità di comando, il principio organizzativo elaborato come cardine della direzione aziendale efficace da Henry Fayol - Cfr. H. Fayol (1919), Direzione industriale e generale, Angeli, Milano, 1961 – che a sua volta lo assume direttamente dai modelli organizzativi prevalenti negli eserciti.

(6) Il principio organizzativo del coordinamento basato sulla gerarchia, pur essendo di gran lunga prevalente rispetto ad altri nella maggior parte delle organizzazioni, non è del tutto dominante, come mostrano le ricerche di Ouchi sul governo delle transazioni organizzative (cfr. W. G. Ouchi, Markets, Burocracies and Clans, in “Administrative Science Quaterly”, n. 25, marzo 1980).

(7) Basti pensare al fenomeno della «concentrazione senza centralizzazione» come scelta - tipica delle forme del neo-capitalismo - di governo e di controllo prevalente nelle grandi imprese contemporanee (Cfr. R. Sennet (1998), L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 1999).

(8) G. Hedlund, The hypermodern MNC - A heterarchy?, in «Human Resource Management», spring 1986. Si veda inoltre P. Gagliardi, La supremazia delle professioni, in «Next on line», n. 16, 2003.

(9) Cfr. J. S. Brown, P.  Duguid (2000), La vita sociale dell'informazione, Etas, Milano, 2001.

(10) D. Schön (1983), Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993.

(11) Cfr. D. Schön, The Reflective Tourn, Teacher College Press, New York, 1991.

(12) P. Gagliardi, La supremazia delle professioni, op. cit..

(13) Questa trasformazione sembra confermare la profezia weberiana secondo cui l’ordine burocratico fondato sulla razionalità tecnica, sulla legalità e sulla gerarchia avrebbe prodotto l’organizzazione razionale, ossia quella «gabbia di ferro» protettiva e rassicurante, ma al tempo stesso omologante e piatta) che a sua volta avrebbe condotto al «disincanto del mondo». Cfr. M. Weber (1920-21), Sociologia della religione, ol. I, Comunità, Milano, 1982, pp. 191-192.

(14) J. S. Brown, P.  Duguid (2000), La vita sociale dell'informazione, op. cit..

(15) E. Wenger (1998), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Cortina, Milano, 2006.

(16) P. Gagliardi, La supremazia delle professioni, op. cit., p. 3.

(17) Ibidem.

(18) M. Crozier, E. Friedberg (1977), Attore sociale e sistema, Etas Kompass, Milano, 1978; E. Friedberg (1972), L’analisi sociologica delle organizzazioni, Formez, Roma, 1986; E. Friedberg (1993), Il potere e la regola, Etas libri, Milano, 1994.

(19) L’interpretazione del concetto di potere che qui seguo è quella legata all’analisi strategica delle organizzazioni, l’approccio elaborato da Michel Crozier in seguito ad una gran varietà di ricerche empiriche condotte da lui stesso e dai suoi collaboratori nell’ambito delle attività del Centre de Sociologie des Organisations di Parigi.

(20) E. Friedberg (1981), L’analisi sociologica delle organizzazioni, op. cit..

(21) E. Wenger (1998), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, op. cit.. Cfr. inoltre E. Wenger, R. Mc.Dermott, W. M. Snyder (2002), Coltivare comunità di pratica, Guerini e Associati, Milano, 2007; J. S. Brown, P.  Duguid (2000), La vita sociale dell'informazione, op. cit.; D. Lipari, Interesse, solidarietà, dialogo e responsabilità nelle «comunità di pratica», in «FOR», n. 73, 2008.

(22) Su questo aspetto cfr. J. S. Brown, P.  Duguid (2000), La vita sociale dell'informazione, op. cit.., pp. 80-84.


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