Introduzione al numero tematico 8 - Pratiche partecipative per l'apprendimento nelle organizzazioni

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Era da tempo che con i colleghi del Comitato di Redazione pensavamo di dedicare un numero alle pratiche partecipative e alla loro facilitazione. Personalmente ritengo che oggi, sempre più, il formatore debba essere un progettista e un facilitatore di processo.
Raramente, ormai, siamo chiamati a trasmettere contenuti, questi sono disponibili in abbondanza sul web a tutti i livelli di approfondimento e di sofisticazione. Quello che ci viene spesso richiesto o che noi stessi inseriamo nelle nostre progettazioni, è la selezione dei contenuti ed eventualmente il loro 'montaggio' in un percorso di ‘flipped learning’.La logica della ‘flipped classroom’ contribuisce a un significativo spostamento dell’attenzione dalle tecniche d’aula – seppur esperienziali e interattive – alla facilitazione di processo.

Siamo sempre in una situazione di apprendimento – tutte le volte che ci confrontiamo in maniera aperta con qualcosa/qualcuno c’è apprendimento – ma l’attenzione qui si sposta dall’acquisizione di informazioni e contenuti, alla riflessione individuale e condivisa su contenuti ‘emergenti’ dal confronto stesso in vista di una proposta da elaborare, una decisione da prendere, un’azione concreta da intraprendere. Esploriamo velocemente la relazione tra formazione e facilitazione, non tanto per scoprire le differenze quanto piuttosto per farne un uso opportuno.

La formazione ha come fine  il conseguimento di un risultato a lungo termine. Un giorno o due giorni o addirittura anche cinque giorni di formazione, difficilmente avranno un impatto immediato. I concetti appresi e quanto sperimentato nel percorso formativo dovranno essere continuamente rinforzati, praticati, raffinati per essere effettivamente agiti – messi in pratica - dai partecipanti nelle loro situazioni quotidiane specifiche. Se questo viene fatto bene, a lungo termine, si vedranno concreti cambiamenti. Tuttavia sappiamo che, quando la persona e l'organizzazione non fanno nulla per rafforzare i concetti, tutto ciò che viene appreso nell’evento formativo, è perduto!

Le pratiche partecipative perseguono un risultato diverso e hanno una maggiore enfasi sul breve termine. Questo risultato può essere, ad esempio, una decisione tempestiva o un consenso immediato su qualcosa o, semplicemente, l’ampliamento dei punti di vista, attraverso il confronto facilitato. Potrebbe anche essere una profonda e ‘conclusiva’ discussione tra colleghi, nel presente, su qualcosa che deve cambiare ma che darà frutti in un orizzonte temporale lungo. Come, per esempio, nel caso di un piano o di un progetto nel quale, anche se il risultato è un piano immediato documentato, la sua implementazione potrebbe richiedere un certo numero di anni.

Nelle pratiche partecipative quello che il facilitatore fa è, essenzialmente, aiutare il pensiero a fluire all’interno di un gruppo producendo intelligenza collettiva – comprensione condivisa – generalmente finalizzata all’intraprendere un’azione su qualcosa che ‘sta a cuore’ al gruppo.
Le pratiche partecipative e la facilitazione si basano sulla collaborazione. Il gruppo si riunisce non perché ha bisogno di acquisire informazioni o competenze ma perché ha bisogno di una struttura per pensare utilizzando le informazioni che già hanno come gruppo – magari non tutti in maniera omogenea e/o esplicita) in un modo che si tradurrà in qualcosa di nuovo e diverso. Il facilitatore costruisce il ‘contenitore’ e fornisce gli strumenti, la struttura, il flusso, la calma, la presenza e l'energia per guidare il gruppo.

Nella formazione il docente aiuta il gruppo ad applicare il contenuto che gli ha fornito e oggi, che essa è sempre più interattiva ed esperienziale, il contributo del docente sta soprattutto nel fornire dimostrazioni e casi, nel predisporre esercitazioni pratiche attraverso le quali sperimentare, sperimentarsi e ricevere feedback, nel rafforzamento dei concetti che sono stati condivisi.

Nella facilitazione l'enfasi è molto di più sulla comunicazione. Si tratta di aiutare i membri del gruppo a condividere i loro punti di vista, capirsi l'un l'altro, costruire coesione delle idee e trovare modi per risolvere i problemi. Non è richiesto al facilitatore di rafforzare alcun concetto. Tuttavia, molte tecniche di formazione possono essere applicate nelle situazioni di facilitazione, ad esempio, per aiutare il gruppo ad avere più successo nel ‘cementare’ una decisione. E, viceversa, tecniche di facilitazione possono essere impiegate nella formazione, come ben ci illustra Pier Luigi Ventura nel suo articolo in questo numero.

Una differenza fondamentale tra formazione e facilitazione, tra pratiche formative e pratiche partecipative, è nella progettazione. Nella formazione è il docente che decide quali sono i risultati dell'apprendimento e, di conseguenza, progetta le attività e i contenuti da proporre e, come sappiamo, questi variano in funzione dei temi ma, molto meno, in funzione degli interlocutori. Spesso si tratta di opportuni aggiustamenti e personalizzazioni di canovacci di massima, puzzle di contenuti ed esercitazioni che hanno dimostrato di funzionare in un contesto di quel tipo con degli interlocutori simili.

Al contrario, il facilitatore deve avere sempre un programma flessibile perché, semplicemente, non può prevedere che cosa succederà a seguito dell’utilizzo di uno strumento né come cambierà dove il gruppo potrà avere bisogno di andare o deciderà di andare. Non ha importanza quanto si interviene in anticipo e con quale dettaglio progettiamo il contenitore, il lavoro come facilitatore di processo richiede sempre di rimanere adattabile. La facilitazione, infatti, cambia e si adatta al momento perché il facilitatore sta aiutando i membri gruppo a fare una complessa tessitura del loro pensiero.

Facilitare una pratica partecipativa, quindi, richiede un'ampia gamma di competenze e strumenti, dal problem setting al problem solving e ai processi decisionali, dalla comunicazione alla gestione del gruppo, con una particolare enfasi sull’’arte di domandare’ e su quella di fare sintesi, solo per citarne alcune.

Come ho accennato, quello che fa un facilitatore è ‘disegnare’, guidare e gestire un evento di gruppo per assicurare che gli obiettivi del gruppo stesso siano soddisfatti in modo efficace, con un processo di pensiero chiaro, una buona partecipazione e la condivisione da parte di tutti coloro che sono coinvolti.
Per facilitare in maniera efficace, quindi, è necessario saper restare sul processo ed essere oggettivo. Questo non vuol dire sempre venire dall'esterno dell'organizzazione o del gruppo. Significa semplicemente che, ai fini di quello specifico processo di gruppo, il facilitatore prenderà una posizione neutrale, uscendo dalle proprie visioni personali e concentrandosi puramente sul processo di gruppo.

Il segreto della buona facilitazione è un ambiente favorevole e processo di gruppo che scorre. Con esso, infatti, fluiranno anche le idee, le soluzioni e le decisioni. La responsabilità chiave del facilitatore è creare un ambiente in cui, e un processo attraverso il quale, il dialogo possa prosperare generando un pensare collettivo - oserei dire comunitario – sulle questioni ‘che contano’.

In questo numero di Formazione & Cambiamento, non potendo curare una rassegna completa delle pratiche partecipative poiché si arricchiscono di continuo di nuove sperimentazioni e contributi metodologici, abbiamo provato a raccogliere quelli che ci sembrano i ‘fondamenti’ nel senso dell’anglosassone ‘foundations’ auspicando la possibilità di tornarci periodicamente per dare evidenza della loro costante evoluzione.

Per questo, dopo un’introduzione sul concetto stesso di partecipazione con un focus sull’OST (Open Space Technology) seguita dall’articolo già citato sul contributo che la facilitazione può dare alla formazione, sono illustrate le altre principali pratiche della cosiddetta Art of Hosting (conversations that matter) e, in particolare, il World Café e il Proaction Café, pratiche nate per facilitare processi partecipativi di innovazione sociale che sempre più spesso vengono usate anche nei contesti organizzativi per favorire un’esplorazione libera e generativa e la produzione di proposte e decisioni frutto dell'intelligenza collettiva.
Abbiamo ritenuto interessante, anche, tradurre un estratto da un testo sull’arte del domandare scritto dagli iniziatori di queste metodologie perché mette a fuoco un elemento cruciale per le pratiche dell’ AoH: porre delle buone domande costruttive.

Per la progettazione partecipata, invece, uno dei metodi consolidati in ambito comunitario e per i progetti di cooperazione internazionale è il GOPP (Goal Oriented Project Planning) che vede riuniti intorno al tavolo tutti gli stakeholder del progetto perché questo sia sempre più aderente all’insieme dei loro interessi.

Con l’articolo sul Social Dreaming, introduciamo, seppure brevemente, un metodo creativo per costruire una narrazione partecipata, scoprendo il significato e la rilevanza sociale dei sogni.

Il primo articolo della sezione Pratiche presenta una pratica emergente e fondamentale – in particolare nell’Art of Hosting - che è la facilitazione grafica, una proposta efficace e suggestiva per fare 'harvesting’, la raccolta, di quanto emerso nel processo di gruppo affinché possa essere patrimonio comune per chi era presente e sintesi visiva narrativa per tutti gli altri.

Il secondo articolo, che consente anche a noi un nuovo esperimento (sorpresa!) vuole far conoscere un lavoro di natura artistica a scopo facilitativo che, nato in Francia e sviluppato poi in Gran Bretagna, si sta affacciando con successo anche sulla scena italiana.

Infine le recensioni di questo numero: quella su uno dei libri più letti in campo organizzativo nell’ultimo anno – Reinventing organization di Frederick Laloux – che sta dando anche origine a un importante movimento di trasformazione a livello internazionale -, una nuova recensione di Mimmo Lipari su un intrigante narrazione del lavoro di ricerca, l’affascinante romanzo di Mischa Berlinski “Ricerca sul campo”, altre due recensioni di testi più ‘tecnici’ per gli specialisti di apprendimento, quello di Marina Pezzoli sulle soft skills e quello di Stefania Capogna “Scuola Università E-learning. Buona lettura!

 

L'immagine di questo numero è South bank circle, un'opera di Richard LOng del 1991

Il comitato redazionale

Myriam Ines Giangiacomo

Domenico Lipari

Giusi Miccoli

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