La precarietà dell'insegnare
Nei mestieri dell’educare la precarietà è legata non solo a questioni gestionali o contrattuali ma anche all’evoluzione delle culture pedagogiche. Se, infatti, la grammatica della scuola è rimasta sostanzialmente immutata nel tempo, le dinamiche delle teorie dell’apprendimento e dell’insegnamento hanno segnato traiettorie non facilmente allineabili con le biografie professionali di chi lavora in aula. Non sono rare le parabole di modelli teorici che dopo il lancio promettente si espandono sul campo prima di concludersi mestamente nell’obsolescenza o nell’oblio. Questa instabilità ha rilevanti conseguenze sulle professioni dell’insegnare.
Il caso dei learning styles: il divenire delle culture professionali
Dai primi anni 1960 il paradigma dei learning styles ha invaso il linguaggio sull’educazione e sull’apprendimento. L’ipotesi è apparentemente semplice: c'è chi è predisposto a un apprendimento "visivo" e impara meglio evidenziando i concetti con diversi colori; chi dà il massimo sul canale auditivo-verbale e memorizza più facilmente frasi ripetute ad alta voce; chi si rivela un “a tactile or kinesthetic learner” con preferenze per le esperienze, i giochi e le attività hands-on. Adiacente è il concetto di “stili cognitivi” per identificare le modalità con cui gli individui elaborano preferibilmente l’informazione nel corso di compiti diversi. Lo ‘stile cognitivo’ rifletterebbe le differenze nelle strategie di apprendimento, determinando il personale modo di percepire la realtà e di decodificarla. Se ogni studente ha un proprio modo di apprendere, ovviamente chi insegna ne deve tener conto.
La letteratura sconfinata sul tema include lo sviluppo di modelli e la predisposizione di strumenti di analisi con una estensione della differenziazione, al di là delle caratteristiche individuali, anche alla diversità culturale.
La colonizzazione del pensiero risulta evidente. Una versione divulgativa della teoria ha preso piede nella comunicazione professionale, nel linguaggio pedagogico, nei manuali per insegnanti e nella narrazione delle cose di scuola per oltre un ventennio. Gli insegnanti che vogliono documentarsi trovano agevolmente un’area ricca di contributi e di indicazioni anche operative. Learning styles sono anche un item nelle prove ufficiali per la selezione dei docenti, trovano eco nei programmi scolastici e nei documenti istituzionali (1). Come paradigma di riferimento hanno ispirato le strategie di personalizzazione e legittimato la diversificazione metodologica e tecnica degli interventi, oltre che rafforzare la filosofia della centralità del singolo studente. A questa socializzazione pervasiva si è, tuttavia, contrapposta un’ondata di critiche nel corso ormai di più di un decennio.
Al crivello delle neuroscienze
Soprattutto il crivello delle neuroscienze ha avuto un ruolo nel mettere in discussione la validità delle teorie dei learning styles. Già nei primi anni 2000 l’OECD si era interessato ai neuromyths, cioè alle concezioni errate dell’apprendimento evidenziati dalle neuroscienze (2). Nel 2004 Coffield, Ecclestone e Hall (3) esaminano i più diffusi modelli di stili di apprendimento concludendo sulla mancanza di basi scientifiche per incoraggiarne l'uso. Nel 2008 con una meta-analisi Pashler, McDaniel, Rohrer Bjork (4) concordano sulla insufficienza delle evidenze per supportarne l’applicazione nel contesto educativo. Nel 2008 un altro studio di Harold Pashler evidenzia come nella maggior parte dei casi gli studi manchino di rigore scientifico e i pochi che lo possiedono raramente raggiungono conclusioni a favore di questo metodo di insegnamento. Drastica è anche la posizione di Hattie (5) nel 2009. Nel 2013 Howard Gardner interviene (6) per distinguere la propria teoria delle intelligenze multiple dai modelli di learning styles, arrivando a suggerire di “Drop the term “styles” perché “It will confuse others and it won’t help either you or your students”. Nel 2014 Howard-Jones pubblica una revisione scientifica che smentisce il neuromito (7). Nel 2015 un lavoro di Newton studia il motivo della capillare diffusione tra gli insegnanti del mito dei learning styles non confermato da evidenze scientifiche (8). Nello stesso anno 2015 Willingham, Hughes e Dobolyi (9) sottoscrivono l’assenza di validazione scientifica esprimendo la preoccupazione per la pervasività della teoria dei “learning styles”.
La cultura dell’apprendimento (10) è una variabile strategica per la qualità di sistemi di istruzione. Le conseguenze dell’adozione di teorie non validate scientificamente sono rilevanti: possono influenzare, ad esempio nel caso dei learning styles, su come i genitori e gli insegnanti considerano il potenziale degli studenti stessi con probabili effetti di distorsivi (11).
La permanenza dei neuromiti nel contesto educativo (12) e nel pubblico in generale (13) solleva il problema di come possano essere sradicati. Le indicazioni di contrasto sono per una esplicita discussione sulla distinzione tra la teoria dei learning styles e l’istruzione multimodale e per lo sviluppo professionale continuo di chi lavora in educazione.
L'interazione tra preoccupazioni accademiche e soluzioni pratiche
La vicenda dei learning styles, collocati nelle mitologie della psicologia del novecento (14), apre uno sguardo sulle dinamiche e sui processi delle culture professionali dell’educare. Da un lato chi opera sul campo ha alle spalle o sullo sfondo un vasto panorama di teorie, di modelli, di ipotesi scientifiche all’interno di uno scenario complesso, dinamico e articolato. È l’humus del sapere di scuola, il capitale scientifico e culturale, di riferimento per la socializzazione professionale, spesso riassunto in manuali in uso nella formazione, con un canone di autori, di teorie e di orientamenti che accomunano la comunità di chi insegna. Dall’altro lato le pratiche di insegnamento adottate in classe o in aula compongono il capitale professionale: riflettono prassi consolidate, includono soluzioni innovative, riprendono routine scolastiche, soggette a logoramento, ma capaci di sopravvivere nel tempo, con percorsi carsici e impreviste emersioni. Alcune posizioni anche tacite sopravvivono a lungo come gli assunti di filosofie di riferimento, dall’attivismo al costruttivismo, o le ipotesi sul ricorso alle tecnologie.
L’arte dell’insegnare è il risultato di una mediazione tra la reinterpretazione contestuale di ipotesi teoriche e, allo stesso tempo, la comprensione in profondità dei processi in atto. In questo contesto può anche verificarsi la sopravvivenza di ipotesi teoriche abbandonate dalla ricerca o l’adozione di formule promettenti prima che abbiano la forza di rigorose sperimentazioni. Soprattutto è ricorrente la riarticolazione degli orientamenti all’azione, impliciti o espliciti, come processo dialettico tra nuove acquisizioni e resistenze delle prassi tradizionalizzate.
L'uso delle teorie nelle pratiche di insegnamento
Quale sia l’impatto della ricerca accademica sulle pratiche di insegnamento non è determinabile a priori. Il susseguirsi di stimoli, la successione di paradigmi, il conio ricorrente di nuovi manifesti e l’invasione di slogan possono anche destabilizzare i quadri di riferimento acquisiti o generare misconcezioni.
Il caso dei learning styles, categoria di successo pur senza validazione scientifica, invita a riflettere. L’affermarsi globale di una concettualizzazione nelle dominanti culture professionali, nella letteratura accademica di riferimento, nelle narrazioni sull’educazione e la sua permanenza nonostante la carenza, riconosciuta e condivisa, di una robusta base scientifica, illustrano una faccia non certo secondaria e, probabilmente, non rara dei sistemi di insegnamento. La mancanza di una validazione scientifica, infatti, non ha eliminato automaticamente il ricorso al modello dei learning styles che è sopravvissuto a lungo e dispone, ancora oggi, di una propria visibilità. Non sono, peraltro, da escludere effetti potenzialmente positivi del movimento attorno ai learning styles nel promuovere la pluralità di approcci all’insegnamento da parte dei docenti.
Interpretazioni scorrette e generalizzazioni non appropriate attorno al funzionamento del cervello, hanno generato una serie di leggerezze scientifiche. Il rischio della sedimentazione di opinioni e idee errate rimane, tuttavia, una sfida costante per chi lavora in classe o in aula. L’aspirazione lodevole verso una ‘evidence-based education’ non è esente da critiche e paradossi. Un qualche tasso di precarietà è, probabilmente, parte di mestieri, quelli dell’educare e del formare, che armeggiano indefessamente verso l’utopia.
Note
(1) MIUR, Rapporto finale del gruppo ristretto di lavoro costituito con d.m.18 luglio 2001, n.672
(2) OECD, Understanding the Brain: Towards a New Learning Science. OECD, Paris 2002.
(3) Coffield F., Ecclestone K. e Hall M.E., “Learning styles and pedagogy in post 16 education: a critical and systematic review” pubblicato da Learning and Skills Research Council. Learning and Skills Research Council, London 2004.
(4) Pashler, H., McDaniel, M., Rohrer, D., and Bjork, R. (2008). Learning styles concepts and evidence. Psychol. Sci. Public Interest 9 (2008): pp.105–119. doi: 10.1111/j.1539-6053.2009.01038.
(5) Cfr. A conclusione del paragrafo dedicato ai learning styles John Hattie scrive: “There were few studies that met their minimum acceptability criteria, and they provided many criticisms of the field such as: too much overstatement; poor items and assessments; low validity and negligible impact on practice; and much of the advocacy in this is aimed at commercial ends. Learning strategies, yes; enjoying learning, yes; learning styles, no.” (Hattie, J., Visible Learning. A Synthesis of Over 800 Meta-analyses Relating to Achievement, Routledge, London 2009 p.197).
(6) Cfr. Strauss, V. “Howard Gardner: ‘Multiple intelligences’ are not ‘learning styles’, Washington Post, 16 ottobre 2013.
(7) Howard-Jones, P., “Neuroscience and education: myths and messages. Nat Rev Neurosci 15, 817–824 (2014). https://doi.org/10.1038/nrn3817.
(8) Newton PM, “The Learning Styles Myth is Thriving in Higher Education”, Front. Psychol. 6 (2015):1908. doi: 10.3389/fpsyg.2015.01908
(9) Willingham, D. T., Hughes, E. M., and Dobolyi, D. G. (2015). The scientific status of learning styles theories. Teach. Psychol. 42 (2015): pp. 266–271. doi: 10.1177/0098628315589505
(10) Sull’importanza delle teorie dell’apprendimento nelle politiche educative cfr. OECD, The nature of Learning. Using Research to Inspire Practice, OECD, Paris 2010.
(11) Sun, X., Norton, O. & Nancekivell, S.E., “Beware the myth: learning styles affect parents’, children’s, and teachers’ thinking about children’s academic potential”. npj Sci. Learn. 8, 46 (2023). https://doi.org/10.1038/s41539-023-00190-x
(12) Cfr. Torrijos-Muelas M., González-Víllora S. e Bodoque-Osma A., “The Persistence of Neuromyths in the Educational Settings: A Systematic Review”, Front Psychol. 2020; 11: 591923 doi: 10.3389/fpsyg.2020.591923 e Stephen B.R.E. Brown, “The persistence of matching teaching and learning styles: A review of the ubiquity of this neuromyth, predictors of its endorsement, and recommendations to end it”, Frontiers in Education, 11 April 2023. DOI 10.3389/feduc.2023.1147498.
(13) Kelly Macdonald, Laura Germine, Alida Anderson, Joanna Christodoulou, Lauren M. McGrath, “Dispelling the Myth: Training in Education or Neuroscience Decreases but Does Not Eliminate Beliefs in Neuromyths”, Front. Psychol., 10 agosto 2017, Vol.8.
(14) Calvani, A. e R. Trinchero, 10 falsi miti e 10 regole per insegnare bene Carocci Editore, Roma 2019.