Ore 10:47, seconda lezione di un corso aziendale sulla AI e sull’uso dei modelli generativi.
Venti professionisti, tutti sopra i trent'anni, tutti con smartphone in tasca e laptop sul tavolo. Gente che gestisce booking online, elabora piani di marketing, risponde a recensioni su TripAdvisor, usa gestionali complessi come fossero extension del proprio corpo.
"Bene," dico, mentre proietto una recensione negativa particolarmente insidiosa. "Ora voglio che facciate una cosa semplice. Non chiedete all'AI di rispondere. Chiedetele aiuto per capire come rispondere. Ditele che non siete sicuri, che volete esplorare insieme le opzioni."
Li guardo mentre annuiscono. Sembrano aver capito.
La scoperta che mi ha sorpreso
Giro tra i tavoli. Schermo dopo schermo, la stessa scena:
- "Rispondi a questa recensione in modo professionale."
- "Scrivi una risposta cortese a questo cliente."
- "Genera una risposta che..."
Mi fermo davanti a una signora sulla cinquantina, responsabile marketing.
- "Cosa hai fatto?"
- "Ho caricato la recensione e le ho detto di rispondere."
- "Ma... ti avevo chiesto di esplorare insieme all'AI, di dirle che non sapevi bene come procedere..."
Mi guarda come se le avessi chiesto di ballare il tango con un bancomat.
Scardinare la grammatica del potere
In quel momento ho capito. Non era incomprensione - avevo spiegato l'esercizio tre volte. Era qualcosa di più viscerale: la grammatica del potere digitale che abbiamo nelle ossa. Per trent'anni abbiamo imparato che noi comandiamo e le macchine eseguono, noi sappiamo e i computer realizzano, noi siamo sopra e la tecnologia è sotto. Chiedere di dire a una macchina "non so bene cosa dire, aiutami" era come chiedere di violare un tabù cognitivo. Di invertire una gerarchia che definisce non solo come lavoriamo, ma chi siamo.
Prendo una sedia, mi siedo accanto a Marco, il più giovane del gruppo.
"Facciamo insieme," dico. "Io parlo, tu scrivi."
Inizio: "Ciao, ho questa recensione complicata. Il cliente si lamenta sia del rumore che del servizio, e onestamente non so da dove partire. Mi sento un po' in difficoltà perché vorrei essere empatico ma professionale e non banale. Cosa ne pensi? Come approcceresti tu questa situazione?"
L'AI risponde con un'analisi articolata che distingue i diversi livelli del problema, suggerisce toni possibili, propone una struttura. Marco mi fissa. Silenzio.
Poi: "Ma sta... conversando?"
"No," rispondo. "Sta simulando una conversazione. Ma se tu conversi davvero, il risultato finale è una vera conversazione."
L'elefante nella stanza (digitale)
Ecco cosa ho capito in quel momento: non stavamo parlando di tecnologia. Stavamo parlando di identità. Per questi professionisti - bravi, competenti, aggiornati - ammettere incertezza davanti a una macchina era ammettere di non sapere (tabù professionale) a una macchina (umiliazione ontologica) davanti ai colleghi (suicidio sociale). Il triplo salto mortale dell'ego professionale. La cosa più assurda? Questi stessi professionisti non avrebbero problemi a dire a un collega: "Senti, questa recensione è tosta, che ne pensi?" Ma dirlo a un'AI? Impossibile. È come se la macchina, proprio perché non giudica, diventasse il giudice più severo. Come se il suo non-essere-umano rendesse più umiliante mostrarle la nostra umanità.
La rivelazione del caffè
Pausa caffè. Si avvicina Laura, una delle partecipanti più scettiche.
"Sai cosa mi blocca?" dice, mescolando lo zucchero. "Se parlo con l'AI come parlerei con una persona e l’AI fa quello che so fare, poi cosa sono io? Qual è il mio valore aggiunto?"
Eccolo lì, il cuore della resistenza. Non è paura che l'AI ci sostituisca nel fare. È paura che ci eguagli nel pensare. E se accettiamo di pensare insieme, chi siamo noi?
La resistenza del pomeriggio
Ultima ora di lezione. Faccio un altro esercizio.
"Scrivetemi una breve relazione sulla prima lezione del corso."
Compito semplice, esplorativo. Mi aspetto riflessioni, domande, considerazioni personali. Quello che ottengo invece sono ventuno varianti di:
- "Genera una relazione sulla prima lezione del corso di formazione AI."
- "Scrivi un riassunto professionale della lezione introduttiva."
- "Prepara un report sulla sessione formativa di apertura."
Di nuovo, sempre e solo ordini. Come se il loro cervello avesse un interruttore bloccato sulla modalità comando-esecuzione, indipendentemente dal tipo di richiesta che facevo loro. Anche quando chiedevo esplicitamente di esplorare, dialogare, ragionare insieme, loro traducevano automaticamente tutto in: dammi un output, fammi completare il task.
La cosa più frustrante? Quando gli mostravo la differenza tra il loro approccio e un approccio dialogico, annuivano, sembravano capire, dicevano "ah, interessante!" - e poi tornavano immediatamente a dare ordini. Come se ci fosse un firewall cognitivo che impediva loro di trattenere il concetto di conversazione con una macchina.
Cosa ho imparato
Mentre raccolgo le mie cose, prima di andare, realizzo l'ironia. Ho passato mesi a preparare un corso su come usare l'AI. Ma la vera lezione era un'altra: abbiamo disimparato a dialogare. Non solo con le macchine - in generale. Siamo così abituati a performare competenza che l'idea stessa di esplorare, tentare, non sapere ci terrorizza. E quando una macchina ci offre lo spazio sicuro per farlo - nessun giudizio, infinita pazienza - noi... le diamo ordini. Come se anche nel dialogo con noi stessi avessimo bisogno di fingere di sapere già tutto.
Ma soprattutto, ho capito che non sto insegnando a usare uno strumento. Sto tentando di facilitare un cambio di paradigma relazionale. E come ogni vera trasformazione, fa paura.
La prossima volta che qualcuno vi dice "ci vuole il prompt giusto", ricordategli che sì, dare ordini è facile. È il dialogo la vera sfida. Perché nel dialogo dobbiamo mettere in gioco noi stessi. E a giudicare dalla resistenza che ho incontrato, probabilmente non siamo ancora pronti a farlo.
Ma forse, proprio per questo, è così importante provarci.
P.S.
Lo so, ve lo state chiedendo: sì, questo articolo l'ho scritto dialogando con un'AI. E no, non le ho dato ordini. Abbiamo ragionato insieme su cosa volevo dire. Ed è venuto fuori meglio di come l'avrei scritto da solo.
