Flixbus & Vonnegut

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A volte sparisco dai radar: non chiamo per mesi. Poi ricompaio. Per fortuna ho amici, colleghi e clienti che lo sanno e mi perdonano. 
Poco tempo fa richiamo Aldo (i nomi e i riferimenti sono stati cambiati), un vecchio cliente diventato nel tempo un caro amico. È un ex-dirigente d’azienda, settantenne in pensione ma ancora molto attivo lavorativamente, padre di due figli. Mi racconta della figlia più grande, Fabiola (37) architetto come lui, che dopo 7 anni presso un importante studio associato ha deciso di prendersi un anno sabatico. Fabiola ama scrivere: ha mandato un suo racconto a un concorso letterario, non lo ha detto al padre che lo ha scoperto casualmente; si è giustificata dicendogli: "non mi sembrava molto importante". È amante della musica punk, va ai concerti dei suoi gruppi preferiti, prende lezioni di boxe: tutte cose "fuori asse” rispetto alla concezione di "Percorso di vita Ordinario e Canonico", che il padre ha seguito per tutta la sua vita e che credeva di essere riuscito a trasmetterle.
L’altro figlio Luca (34), secondo il padre, segue ancora meno “il percorso” ovvero “prima studiare, poi lavorare per avere un reddito che garantisca benessere e sicurezza etc.”. Luca (ingegnere) ha invece un “approccio da artista: vuole lavorare per il piacere del lavoro”. Per i modelli culturali del padre “fare il lavoro che piace viene dopo". Invece Luca si è licenziato dalla società dove lavorava e ha scelto la libera professione. Ora lavora tre giorni a settimana così da avere più tempo per le sue passioni. Però, secondo il padre, così ha meno soldi, “produce meno reddito” e se deve fare un viaggio per andare a trovare la ragazza dall’altra parte d’Italia non prende il Freccia Rossa ma Flixbus! 
Il papà ha una preoccupazione legittima: teme che i figli – soprattutto il minore – restino fragili economicamente. Poi mi chiede: "ha senso alla loro età che cerchi ancora di insegnargli il percorso di vita ordinario?”. E alla fine arriva a chiedersi da solo: “Ma c’è poi oggi un percorso canonico?” E soprattutto: "Conosco davvero i miei figli? Come posso rapportarmi, dialogare con loro?"
Parto da qui per una prima riflessione che dal “fantomatico” concetto di “Percorso di Vita Ordinario e Canonico” (C’è mai stato? C’è ancora?) tocchi i temi dell’individualizzazione dei percorsi di vita, del dialogo tra le generazioni, della valorizzazione della persona in quanto tale. L’ambizione non è dare risposte e ancor meno un impianto esaustivo ai temi così vasti, ma solo trovare qualche domanda spero utile ad allargare ancora di più la prospettiva. 


Esiste ancora “un” Percorso di Vita Ordinario e Canonico? 
In questo particolare momento storico sono compresenti nei luoghi di lavoro – e a volte in famiglia anche di più – dalle quattro alle cinque differenti generazioni con approcci molteplici alla vita e al lavoro, diversi valori e visioni del mondo, variegate capacità d’uso delle tecnologie e modalità comunicative.
Federico Capeci ci fornisce al riguardo una mappa completa che qui presento solo per sommi capi (F.Capeci, Generazioni, F. Angeli, Milano, 2020): 
•    la generazione "silenziosa" (i ragazzi degli anni '40 e '50, nati prima del 1945), 
•    i figli del Boom economico (i ragazzi degli anni ’60 e ’70, nati tra il 1945 e la metà dei ’60), 
•    la Generazione X (i ragazzi degli anni ’80 e ’90, nati tra il 1965 e la metà degli ’80), 
•    i Millennials o Generazione Y (i ragazzi del primo decennio degli anni 2000, nati tra il 1985 e la metà degli anni ’90), 
•    i Centennials o Generazione Z (i ragazzi del decennio del 2010, nati tra il 1995 e la metà dei primi anni 2000), 
•    la generazione Alpha (i ragazzi di oggi, nati dopo il 2005). 
Ognuna di queste generazioni ha “miti” culturali propri e distinti dalle altre, dà un peso valoriale molto diverso a fattori quali denaro, proprietà dei beni, sicurezza, libertà, soddisfazione sul lavoro etc. Ognuno è figlio della sua generazione: se l’acqua in cui nuotiamo – il contesto sociale, lavorativo ed economico – può essere comune e condiviso, come nuotiamo in quell’acqua, come viviamo e percepiamo quel contesto è spesso radicalmente differente a seconda della diversa generazione di appartenenza. Ambizioni, abitudini, disagi, paure, linguaggi: bastano ormai solo pochi anni di differenza e tutto cambia più profondamente e rapidamente di prima.
Il dialogo tra le generazioni è quindi sempre più complesso. Le istituzioni formative (la scuola in primis) riescono solo in parte a ricreare un tessuto comune. Così il mondo del lavoro – con l’inevitabile compresenza di più generazioni – diventa arena di confronto delle diversità di visioni di vita, di obiettivi, di aspettative di carriera, di esigenze di bilanciamento vita-lavoro. 
C’è però di più: sempre più spesso osserviamo nelle storie e nei comportamenti individuali (come quelli appena raccontati) un ulteriore processo di individualizzazione, di liberazione anche dai vincoli e dagli schemi non solo della “generazione dei padri” ma anche della propria stessa generazione, di ricerca personale di un proprio percorso di vita che sia autentico per sé stessi. Il percorso diviene sempre più “sentiero individuale”. In questa ricerca è facile smarrirsi, a qualsiasi età. Da qui la crescente domanda di supporto come ausilio al proprio orientamento personale, alle scelte e decisioni della propria vita che non “vanno più in automatico” sui binari standard del percorso ordinario ma che devono essere prese con la propria coscienza individuale, con il proprio io. Emergono esigenze di lavorare sulla propria biografia con qualcuno che ci aiuti a rileggere e a “riscrivere” il proprio percorso di vita: una sorta di “destiny coaching”.


Quali domande per un nuovo dialogo?
È il momento di farci nuove domande: come dialogare tra generazioni se i “codici” diventano sempre più individuali e personali? Come ascoltarci reciprocamente e apprendere dall’altro proprio ciò che è più lontano da noi: dal modo di percepire le cose al modo di pensare e di agire, dai valori e punti di vista alle abitudini? Come svilupparci ed evolvere insieme? Come creare e innovare insieme grazie alle nostre differenze? E soprattutto, come volerci bene e comprenderci al di là di queste differenze in quanto esseri umani?
Quest’ultima domanda – apparentemente “sentimentale” – mi arriva da Kurt Vonnegut, scrittore statunitense di origine tedesca (1922-2007). La sua ricerca – umana prima ancora che letteraria – è stata improntata da un doloroso bisogno di ritrovare ed esprimere i più profondi valori universali dell’essere umano. Valori che aveva visto dissolversi nella disumanità della II Guerra Mondiale e nell’orrore del bombardamento di Dresda, vissuto in prima persona e raccontato nel suo romanzo più noto: Mattatoio n.5 (Feltrinelli, Milano 2003; ed. or.: 1969). Chi fa arte – in particolare come Vonnegut che usa la chiave della fantascienza per parlare di temi universali  – accede a volte a visioni del mondo che vengono direttamente dal futuro e così Vonnegut in Dio la benedica, signor Rosewater o le perle ai porci (Feltrinelli, Milano 2005; ed. or.: God Bless You, Mr. Rosewater, 1965) fa dire al protagonista: “Il problema è questo: come amare la gente che non serve a nulla? "Col tempo, quasi tutti gli uomini e le donne diventeranno inutili come produttori di merci, generi alimentari, servizi e altre macchine, come fonti di idee pratiche nei campi dell'economia, della tecnica e forse anche della medicina. Così... se non riusciamo a trovare delle ragioni e dei metodi per fare tesoro degli esseri umani in quanto ESSERI UMANI, tanto varrebbe, come è stato suggerito così spesso, cancellarli dalla faccia della terra".
Vonnegut anticipa i tempi: già sessant’anni fa sembra prevedere i cambiamenti tecnologici e umani che stiamo vivendo adesso, in particolare l’AI. A breve – a prescindere dalla nostra età e dal nostro percorso “ordinario” o straordinario di vita – noi umani rischiamo di non servire più neanche come “fonti di idee”
Se ChatGPT inizia nel 2022 la sua irrefrenabile ascesa, quasi nello stesso periodo compare la “Generazione YOLO” (acronimo di “You Only Live Once”): la pandemia, con lo sdoganamento dello smart working, e soprattutto la post-pandemia, col desiderio di riprendersi la vita, hanno infatti stimolato la comparsa sulla scena di una generazione trasversale che a partire dalla filosofia del “si vive una volta sola” non è più disponibile a sacrificare i propri progetti di vita e il proprio tempo al lavoro e alla carriera, soprattutto se scollegati dalle proprie passioni.
Nessuno oggi è in grado di prevedere come evolverà il post-umanesimo in cui ci stiamo incamminando, ma di fronte a questi mutamenti  – come profetizzava Vonnegut – dovremo imparare già adesso a prenderci cura l’uno dell’altro molto più di quanto facciamo oggi, di ogni altro in quanto tale, in quanto essere umano, al di là di ogni differenza generazionale.
Questa sarà anche la sfida per chi si occuperà di “persone” – e non di “risorse umane” – nelle aziende e nelle comunità del prossimo futuro.




Il comitato redazionale

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